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a struttura d’acciaio”, nel 1936 per “l’alloggio per quattro per-
sone”, ma anche, nel 1943, per la villa ad Ispra, utilizza pareti
in vetro intelaiate in metallo a dividere tra loro gli ambienti.
Il riferimento ad Albini non è, in questo contesto, affatto ca-
suale e richiede una breve digressione. Se dovessi infatti sce-
gliere, mutatis mutandis e senza averglielo chiesto, un “mae-
stro” da attribuire a Giuseppe Bavuso, progettista unico della
Rimadesio, sceglierei Albini. Li accomuna un linguaggio si-
lenzioso e una riservatezza personale, la capacità di controllo
tecnico del progetto, così come il concetto di centralità degli
interni in architettura.
Un ulteriore imprescindibile riferimento quando si af-
frontino le vicende del vetro in architettura è senz’altro Mies
van der Rohe (non per nulla campione riconosciuto di tutti i mi-
nimalisti). Sia il Mies giovanile della villa Tugendhat (1930)
che il Mies maturo della casa Farnsworth (1950) vedono nel
vetro lo strumento per giungere alla differenza, per disegnare
quel mondo nuovo in cui l’uomo fi nalmente domina l’ambien-
te naturale: non teme più la natura, anzi la osserva attraverso
immense vetrate. Si tratta di un uomo nuovo che non si na-
sconde dietro alte mura, che non teme giudizi e lascia che il
passante lo osservi, scruti la sua casa, le sue scelte estetiche,
la sua intimità (a volte solamente schermata da tende di vellu-
to). L’architettura di vetro, ritratto paradigmatico dell’abitante
del XX secolo, fi nisce per costituire la precisa rappresentazio-
ne di un nuovo sé. Diceva infatti Mies, già nel 1924, “L’archi-
tettura è la volontà di un’epoca tradotta nello spazio”.
Ma torniamo al nostro racconto chiedendoci quale sia
stato e quale sia il ruolo delle grandi superfi ci di vetro in inter-
ni? Prima di tutto, ovviamente, dividere, ma contemporanea-
mente unire: a differenza infatti di una parete opaca, intona-
cata o in legno, il vetro montato con il metallo costituisce un
velario più che una separazione. Crea luoghi differenziati sen-
za opprimere o ridurre la percezione complessiva dello spa-
zio. In seconda istanza le grandi pareti vetrate illuminano, sia
in quanto permeabili o semi-permeabili alla luce naturale, sia
in quanto usualmente portatrici di luce artifi ciale: immense
lanterne nelle stanze, quasi teche museali. E ancora, le grandi
pareti vetrate si conservano inalterate nel tempo: il vetro e il
metallo, l’alluminio in specie, sono infatti “eterni”, chiedono
poca manutenzione e, una volta terminata la loro vita, sono
completamente riciclabili. Diceva Gio Ponti, nel 1957 in Ama-
te l’architettura: “il cristallo è un materiale meraviglioso…
sposarlo con l’alluminio, con l’acciaio inossidabile, con lo
smalto su lamiera… un tempo ‘chiudeva’ i buchi delle fi ne-
stre, oggi è un protagonista dell’architettura, con il suo rigore,
con l’assoluto della sua trasparenza…”. Ma non abbiamo an-
cora fi nito: le grandi pareti in vetro e alluminio, declinate in
armadi o cabine armadio, obbligano. Obbligano a conservare
le cose in modo impeccabile, costituendo un antidoto all’ac-
cumulo inconsulto (anche in questo senso sono ecologiche!).
Non per nulla la battaglia per l’architettura di vetro fu letta,
nel passato, come battaglia morale. Citiamo nuovamente
Scheerbart: “La nostra civiltà è in certa misura un prodotto
della nostra architettura. Se vogliamo elevare il livello della
nostra civiltà saremo quindi costretti, volenti o nolenti, a sov-
vertire la nostra architettura. E questo ci riuscirà eliminando
la chiusura degli spazi in cui viviamo. Ma ciò sarà possibile
soltanto con l’introduzione dell’architettura di vetro…”.
Per concludere, le partizioni in vetro e alluminio, spe-
cialmente quelle scorrevoli, costruiscono dei “sipari” (non a
caso uno dei prodotti disegnati da Bavuso per Rimadesio si
chiama proprio Siparium). Credo si tratti di una notazione
fondamentale: il progetto in interni infatti è da un lato desti-
nato a salvaguardare la nostra intimità (questa è la funzione
“difensiva” dell’architettura), dall’altro però è destinato a
“mettere in scena” i nostri riti. Ed ecco che l’aprire “un sipa-
rio” permette di trasformare in teatro gli spazi della vita e
quindi la vita stessa. Un teatro ove si muovono fi gure enigma-
tiche che fanno scorrere, senza sforzo alcuno, separé di vetro
o ante geometricamente riquadrate a collegare spazi, a sfuma-
re ambienti contigui. Mettendo in scena l’unica storia che val-
ga veramente la pena di essere vissuta ovvero il grande rac-
conto della nostra quotidianità.
but the utopia of glass architecture survived, concealed, at
least at fi rst, in interiors. Franco Albini, with his symbolic
attempts at the Triennali, in 1933 for the “steel frame house”,
in 1936 for “dwelling type for 4 people”, but also in 1943, for
the villa in Ispra, uses glass walls framed in metal to divide
up the spaces. The reference to Albini is not, in this context,
at all coincidental and requires a brief digression. If I had to
in fact choose, mutatis mutandis and without having asked,
a “master” to accredit Giuseppe Bavuso, the sole designer of
Rimadesio, to, I would choose Albini. They are united by a
silent language and a personal discretion, the ability of tech-
nical control of the project as well as the centrality concept of
interior design.
A further and essential reference when addressing the
facts of glass in architecture is without doubt Mies van der
Rohe (not for nothing the recognised champion of all mini-
malists). Both the young Mies of the villa Tugendhat (1930) as
well as the mature Mies of Farnsworth house (1950) see glass
as the instrument to make the difference, to design that new
world in which man can fi nally dominate the natural environ-
ment: he no longer fears nature, on the contrary, he observes
it through immense glass walls. It is a new man who does not
hide himself behind high walls, who isn’t afraid of judgement
and lets the passer-by observe, scrutinise his house, his aes-
thetic choices, his intimacy (at times only screened by velvet
curtains). Glass architecture, paradigmatic portrayal of the
twentieth century inhabitant, ends up forming the precise rep-
resentation of a new self. In fact Mies said, as early as 1924,
“Architecture is the will of an era translated into space”.
But lets get back to our story by asking what was and
what will be the role of large surfaces in glass in interior
design. First of all, obviously, to divide but at the same time
to unite: unlike an opaque, plastered or wooden wall, glass
mounted with metal represents a velarium more than a sep-
aration. It creates separate places without oppressing or re-
ducing the general perception of space. Secondly, glass walls
illuminate, as they are permeable or semi-permeable to natu-
ral light in as much as they are usually the bearers of artifi cial
light: immense lanterns in rooms, almost like museum dis-
play cases. And again, they remain unaltered in time: glass
and metal, aluminum in in particular, are in fact eternal, they
require little maintenance and once its life cycle is over are
completely recyclable. Gio Ponti said, in 1957 in Amate l’ar-
chitettura: “crystal is a wonderful material, together with
aluminum, with stainless steel, with enamel on the metal
sheet… once it “closed” the holes of windows, today it is the
protagonist of architecture, with its rigor, with its absolute
transparency…”. But we have not yet fi nished: large walls
in glass and aluminum, declined into wardrobes and walk-
in closets oblige. They oblige you to conserve things impec-
cably, constituting an antidote to thoughtless hoarding (also
from this point of view they are ecological!). Not for nothing
the battle for glass architecture was interpreted in the past
as an ethical battle. We can quote Scheerbart again: “Our
civilization is to some extent a product of our architecture.
If we want to raise the level of our civilization we are then
forced, whether we like it or not, to subvert our architecture.
And this will succeed by removing the closure of the spaces
in which we live. But this will be possible only with the in-
troduction of glass architecture…”.
To conclude then, partitions in glass and alluminum,
especially those sliding ones create “curtains” (it is no con-
cidence that one of the products designed by Bavuso for Ri-
madesio is called Siparium). I think this is an essential nota-
tion: the interior design project is in fact on one hand intended
to safeguard our intimacy (this is the “defensive” function of
architecture), but on the other intended to “stage” our habits
and rituals. And here then opening “the curtain” can trans-
form living spaces and therefore life itself into theatre. A
theatre where there are enigmatic fi gures that slide, without
any effort, glass booths or geometrically framed doors that
connect spaces, blur adjacent rooms. Staging the only story
that is really worth living, in other words the great story of
our everyday life.
MARCO ROMANELLI
Glass Architecture
Architetture di vetro