Foscarini
— Artbook series #1.
Andrea
Anastasio
024
025
l’amore e sacrificare a Venus aveva
recitato i versi di Valerio Edituo:
dicere cum conor curam tibi,
Pamphilia, cordis
quid mihi abs te quaeram,
verba labis abeunt
per pectus manat subito subido
mihi sudor sic tacitus, subidus, dum,
pudeo, pereo.
che tradotto perde tutto tranne l’erotismo
Quando mi provo, Panfila, a dirti
la pena del mio cuore, e cosa io voglio
da te, alle mie labbra vengono meno
le parole.
D’un colpo il sudore mi invade
il petto, e ti bramo: così, muto,
nel bramarti muoio di pudore.6
La vicenda della voce risultante
ci riporta alla questione della luce
negli studi di Anastasio. Se la luce,
come ipotizzo, qui sta per la traduzione
sonora, orale dell’epica sottesa nelle
sagome, allora c’è qui forse una doppia
componente: la scansione, la luce come
ritmo e accanto ad essa la luce come
suono, come una qualità specifica che
gioca con le ombre e i riflessi delle
superfici. Qui la luce gioca a frammentare
e a ricomporre, fa quello che la voce
del bardo o del cantastorie produce nel
portare l’attenzione non sul significato
delle parole, ma sul loro suono,
l’allitterazione – ogni rapper sa come
farla funzionare – che è al tempo stesso
una musica, ma soprattutto un rumore.
C’è, negli studi sulla luce di
Anastasio, la furia della scomposizione,
un privilegiare il balbettio profetico alla
che abbiamo perso nell’uso e abuso
dell’abitudine al risorto. Qui le braccia
indicano la terra, come in certi Buddha
dove essa è chiamata a testimoniare
l’illuminazione. Svegliarsi per lo stupore
della resurrezione significa farsi condurre
da una voce risultante diversa.
Le braccia del Cristo in giù mi ricordano
il Cristo risorto nella Chiesa di San
Salvatore in Chora a Fatih a Istanbul.
Qui Cristo afferra per i polsi Adamo
ed Eva, scoperchiandone le tombe,
e li trascina con sé con una irruenza
che nei secoli abbiamo perso.
Il metodo del rompere, dello
scomporre, del reinventare le
forme, il metodo dell’interrompere la
lettura dell’immagine ha l’indecenza
dell’imprevisto.
Anastasio interrompe la visione e la
ricompone per confonderci.
Come ogni iconoclastia invita a
guardare al di là della scena, a vedere
nei frammenti una diversa facoltà, un
intravvedere che è come far passare
la luce attraverso le pupille appena
dischiuse, con le palpebre abbassate.
Il mondo per i bambini, ma anche
per il Buddha reclinato, appare diverso,
è un mondo la cui scena si dissolve per
lasciare spazio a un’altra possibile o
impossibile ricomposizione.
Per i bambini è il tentativo di afferrare
il pulviscolo che fluttua nella luce che
entra da una finestra, quell’agitarsi di
particelle che rivela qualcosa da cui
i grandi sono esclusi, la fittezza e
densità del mondo in ogni suo respiro.
In quel momento l’intorno perde i
caratteri dell’apparenza, torna a essere
pura manifestazione, scaturigine inedita,
enunciazione chiara e distinta.
Chi ne fruisce dovrebbe ricomporre gli
indizi sparsi, ma alla fine viene preso
dal gioco della frammentazione.
Che però allo stesso tempo è l’accapo
della voce risultante, l’accapo del verso.
La poesia frantuma la prosa sotto le ruote
del suo carro. L’oracolo rimane una voce
che si riesce appena a distinguere nel
vortice dei raggi o dei versi.
Mi viene da pensare alla Leggenda
della Fortezza di Suram, il film di Sergej
Paradjanov sull’epica georgiana, quel suo
modo di scomporre il racconto in scene,
la loro immobilità scandita da siparietti
bui, cornici di un affresco muto.
Come i santi di cui parla Michel de
Certeau nella sua Fabula Mistica7, qui
viene privilegiata l’indecenza, nel senso
letterale, cioè un solecismo o barbarismo,
un mutismo che è non volere saper dire.
È una iconoclastia verbale, quella che
rifiuta di raccontare la buona novella con
le parole di sempre, con le parole che già
sono esaurite. Alcuni di questi santi, che
la tradizione chiama soloi “folli”, “idioti”,
predicano in lingue che essi stessi non
posseggono. È l’irruzione del nuovo in un
mondo affollato e distratto.
Diego de Jesus, parlando del linguaggio
nelle poesie di Juan de la Cruz, dirà
che qui c’è “la licenza di usare termini
imperfetti, impropri e dissimili, visioni
per eccesso”. Si tratta di una impudicizia,
come stile poetico, un santo eccesso
come di follia e sregolatezza.
Il Cristo scomposto che in uno
studio sulla luce di Anastasio volge,
risorto, le braccia in giù ha la stessa
“indecenza”, riattiva in noi l’attenzione
la creazione riprende il suo tempo che
è solo e sempre eterno presente.
E qui l’accapo adoperato da
Anastasio deve ricondurci a un altro
livello. Oltre la scomposizione, oltre
l’abbaglio che essa induce, si arriva a un
battito, a un bordone costante, al suono
che fa il mondo all’inizio, che è lo stesso
singulto che chiamiamo scansione del
cuore e del respiro. Questo tocco, questo
saltello, è lo stesso che conosciamo
nella danza di Shiva Nataraja, o nel
Satiro danzante di Mazara, nel singulto
dei dervishi mevlani. Il battito è alla
fine il silenzio ritmato che riusciamo ad
ascoltare quando abbiamo sciolto le
evidenze, le singolarità del mondo.
Non è percepibile se non a chi danza,
ha il respiro affannato o si è messo a
riposare dopo un vortice. Il volto del
Satiro è trascinato, il capo è reclinato
all’indietro. Shiva è più composto, sta in
equilibrio – sempre su un piede come
il Satiro o il derviscio. Ci guarda, ci
racconta di un elan che è allo stesso
tempo furia scandita e ricomposizione,
trascinamento e stabilità. Solo nel battito,
solo nello scandire, si afferra (la saisie)
quella saggezza che si apprende col
tempo o si dimentica dopo l’infanzia.
La creazione ha un ordine che si
raggiunge solo quando abbiamo imparato
a non farci illudere dalla continuità e
dall’over-lapping. Il mondo è “discreto” e
siamo noi a renderlo continuo saltellando
tra i massi sul fiume.
—English text: p. 054
7
Michel de Certeau, Fabula
Mistica, XVI-XVII secolo (1982),
Jaca Book, Milano, 2008. p167
6
Gellio, Noctes Atticae, 19.9.11