Foscarini
— Artbook series #1.
Andrea
Anastasio
022
023
è iconoclastia che scompiglia le carte del
racconto. Su questo torneremo più tardi.
Prima però dobbiamo obbedire all’epica,
esserle un po’ fedeli.
Le luci corrispondono qui alle
registrazioni fruscianti che Milman Parry
e il suo allievo Albert Lord4 fecero nella
penisola balcanica negli anni ‘30, alla
ricerca dei bardi omerici viventi.
Una ricerca, un fieldwork, che fece fare
un balzo agli studi sull’epica eroica.
Dopo anni di registrazioni sul campo, di
apprendimento dalla viva voce dei bardi,
nelle osterie, sotto le pergole dei caffè
albanesi, dalmati, montenegrini, bosniaci
quel migliaio di versi che di fronte ai
ricercatori stupiti venivano sciorinati dai
cantori, si cominciò a capire qualcosa di
più della relazione tra memoria e oralità,
sul mestiere del versificare, sul racconto
come tessitura di ritmi, stacchi, riprese,
ritornelli, figure, assonanze. E allora
riprendere l’Iliade e l’Odissea divenne
un’attività che restituiva vita a qualcosa
che non sembrava ancora “sceso” dal
carro della poesia.
Non diversamente da quanto
raccontano i ricercatori sugli altopiani
del Guatemala, stupiti di trovarsi di
fronte ad anziani che per “pagare” una
prestazione medica non hanno altro che
la recita di migliaia di versi a memoria di
racconti maya. Qui il capovolgimento è
altrettanto sconvolgente. È l’ultima coda
della Conquista a Seicento inoltrato,
e agli spagnoli è chiaro che nessun
mestisaje, nessuna vera conversione
avverrà – ai soldati viene perfino proibito
di dormire nei villaggi degli indios.
La Conquista ha bruciato i testi scritti
delle popolazioni native, ma queste
eroici che si sacrificano per i cavalieri,
di magnifiche criniere e stupendi garretti,
di salti impossibili di corsi d’acqua che
salvano il rajput ed esauriscono il cavallo.
È una lingua diversa da quella quotidiana,
viene usata solo per cantare le gesta
e ha una versione scritta per siglare
alcuni documenti. Si chiama pingal, gli
astanti la conoscono, giudicano come
essa viene usata, la bravura o meno del
cantastorie. Il maharaja, dopo la prima
parte della storia, porta nel palmo della
mano l’oppio sciolto per il cantastorie,
questi beve direttamente, una, due volte.
La ripresa sembra adesso accelerata da
un entusiasmo diverso. L’oppio è parte
dell’epica qui, ne è il nucleo che racconta
di principesse in attesa del ritorno de
guerriero e dei fumi della memoria che
l’oppio attiva.
Ho visto qualcosa di simile quando
Mimmo Cuticchio molti anni fa ha
celebrato la memoria del suo maestro,
Celano, un cantastorie palermitano
che declamava la storia dei paladini
di Francia con una spada in mano, in
mezzo alla folla, in piedi, nelle piazze,
nei mercati. Celano, e Mimmo Cuticchio
che lo evocava, quando la narrazione
arrivava al duello, allo scontro tra paladini
e mori tirava fuori una voce diversa, ma
soprattutto scandiva le parole, alterava
gli accenti, travolgeva il racconto
sottomettendolo a una metrica che aveva
il potere di fare sentire “i colpi” di spada,
il cozzo delle armature. Era una metrica
“sonora”, doveva soprattutto dare un
passo alla narrazione, farla marciare
e accelerare.
Ferdinand de Saussure, in un
momento di stanchezza, nel 1906,
li mandano a memoria, li proteggono
nascondendoli, seppellendoli nel vivo del
ricordo parlante. Riemergono a distanza
di cento, duecento anni ed oggi il lavoro
di resurrezione continua.
Questa dimensione orale dell’epica
è una fucina incredibile di “trucchi”,
di escamotage, ma siamo noi a vederli
in quest’ottica. In realtà non c’è
differenza tra l’arte di raccontare e
l’arte di ricordare. Se vi è una strategia
essa è già interna alle forme, ai gesti,
alla morfologia. Per ricordare bisogna
saper scomporre, ridurre a numeri
primi, ripercorrere al contrario la genesi
delle forme. Anastasio ci induce a
scompaginare, raccoglie animaletti
blu per assommarli in una confusione
che ne risveglia accostamenti assurdi,
capovolgimenti, riduce un mondo al
cumulo che risulta alla fine quando il
bambino è andato a dormire e il mucchio
riposa in un angolo della stanza.
In un piccolo villaggio del Gujarat,
dominato dal palazzo di un minimum
maharaja, in previsione delle elezioni
a cui questi si candida, il maharaja
organizza una cerimonia dell’oppio.
Al tramonto, su un palco improvvisato
di fronte agli astanti, sale un cantastorie
che viene dalle tribù nomadi che vivono
nel deserto del Thar, tra Il Gujarat e
il Rajastan. Sembra uscito da un film
di Bollywood, sembra un brigante, un
guerriero medievale, un Abatantuono
del deserto. Lo accompagnano un
musicista di harmonium e un suonatore
di cimbali. Quando si leva la voce roca
del cantastorie tutte le orecchie sono
rivolte verso di lui. Canta le grandi gesta
dei rajput, di cavalieri e cavalli, di cavalli
decise di passare un periodo a Roma.
Come passatempo cominciò a visitare gli
Elogia Scipionum, le iscrizioni tracciate
fra il terzo e il primo secolo avanti
Cristo sui sarcofaghi della aristocratica
famiglia degli Scipioni. Sono le più
antiche testimonianze scritte del mondo
romano dove il fruscio della lingua è
ancora presente. Le frasi sui sarcofaghi
utilizzano l’accostamento delle parole.
Non si tratta di metrica, ma di qualcosa
di diverso: qui è il suono delle parole,
il loro contrasto, non la loro “intensità”
o gli accenti ad essere importante.
Come in un riddle, come in un proverbio,
ma anche in una formula magica, è la
ricorrenza o lo stridio della voce a essere
esaltato. Saussure ricostruì un metodo
“orale” pur all’interno di una produzione
scritta. Maurizio Bettini, che racconta
questa storia,5 sostiene che questo
tipo di ricerca sonora si è prolungato in
autori come Ovidio o lo stesso Virgilio. Il
maestro di tutto questo sarà però Plauto
che se ne servirà in funzione comica.
Bettini definisce questa maniera
parlante di scrivere voce risultante.
E ci regala una storia magnifica di
quando questa voce nella tarda antichità
sembra affievolirsi. Nelle Notti Attiche
Gellio racconta che in occasione
della propria festa di compleanno un
giovanotto aveva raccolto a casa sua
vari amici, tra cui il retore spagnolo
Giuliano. Gli invitati avevano cominciato
a ironizzare sui poeti romani, incapaci di
raggiungere la raffinatezza e la dolcezza
del greco Anacreonte.
A questo punto Giuliano aveva
abbandonato la propria riservatezza in
materia di erotismo e per dimostrare
che anche i poeti romani sapevano fare
5
Maurizio Bettini, Roma, città
della parola, Einaudi, 2022
4
Albert B. Lord, Il cantore
di storie, (1960), Argo, Lecce,
2005