Foscarini
— Artbook series #1.
Andrea
Anastasio
020
021
Scansioni, stacchi, sprazzi di luce,
pause, riprese, l’occhio si abitua ai
frammenti. Là fuori il paesaggio scorre
sincopato come dal finestrino di un treno
in corsa (com’è diversa la fruizione del
mondo dalla posizione perpendicolare
al moto di un passeggero di treno, le
sue pupille che si muovono per riportare
costantemente il paesaggio a una
dimensione impossibile di stasi).
Anche se la guida ci ha abituato alla
visione centrale, dominante, aggressiva
nei confronti dell’andare, in noi è ancora
presente l’urgenza di ricomporre il moto
con lo stare del mondo là fuori.
C’è una percezione dell’intorno in
movimento che nasce ai primordi della
rappresentazione. La caccia, la corsa
dietro l’animale, la danza staccano le
figure dallo sfondo, le slanciano dove
l’occhio le può seguire. Saranno poi i
compagni del moto, il cavallo anzitutto,
a scuotere la visione, a renderla nuvola
e polvere che deve essere restituita,
guizzo che va rallentato o accelerato.
Come ci insegna Marilyn Strathern,2
i modi di vedere cambiano da cultura a
cultura. I guerrieri Kaluli che danzano in
gruppo possono solo essere percepiti
confusamente come macchie di colori,
le piume, le pitture dei corpi, le grandi
conchiglie luccicanti sul petto dei
danzatori. Chi guarda non può afferrare
se non le masse, i contorni che si
fondono, i volti svaniscono nel roteare,
nel ritmo, negli scarti. Se chi guarda
non è coinvolto non vede tutto questo.
Deve assumere con gli altri le sostanze
vegetali che cambiano la percezione
dell’insieme. Qui non ci sono spettatori,
ogni visione è possibile solo nel corpo
collettivo che si muove, che si mostra in
una competizione che ogni volta ha un
aspetto pericoloso di confronto tra tribù
che accedono alle stesse risorse.
Questo prendere il mondo, questa
presa nel senso francese della parola
saisie, o nell’inglese to hold – prendere
per tenere – o nel senso con cui si dice
in italiano “mollare la presa”, è una chiave
fondamentale della relazione.
Non c’è moto che non “smuova” in
qualche modo chi si trova nei pressi,
chi ne fruisce le evidenze, fruscio, soffio,
scivolo, pulviscolo e particelle di luce
nella polvere.
Questo effetto è noto agli scultori
del mondo classico. La colonna Traiana
impedisce a chi vi ruota intorno una
fruizione che sia mai soddisfatta.
C’è un aspetto sfuggente nella
composizione che fa parte dell’effetto
“seriale”, la storia continua, si svolge
a nastro. Siamo di fronte a una
consapevole creazione di immagini
in movimento, un reel un rullo di
fotogrammi. E come per le immagini di
una camera chiara anche qui le scansioni,
le cesure tra un fotogramma e l’altro sono
fondamentali per la percezione.
La scultura si anima, fedele alla sua
natura, fedele alle metope di Selinunte,
gioca con gli slanci degli arti, la direzione
dei volti, le ombre che staccano i corpi
dallo sfondo. Si muovono i cavalli,
imbizzarriscono, si muovono gli scudi,
cadono i colpiti, vengono agitati i vessilli.
Movimento di luci ed ombre, lo
ritroveremo nei sarcofaghi della tarda
antichità, come racconta Paul Zanker3,
qui è la vita che viene svolta nella pietra,
è il passaggio accompagnato da
Dioniso e più tardi dal Cristo risorto
con le mani levate.
Ma è anche il movimento del
Gandhara, i cortei che avvolgono
i Buddha riccioluti degli scultori
alessandrini nelle piane dell’Oxiana.
O le danze di Borobudur, la negazione
della staticità, la vendetta contro
l’apparente serietà della pietra. Di fronte
alle figure che danzano qui come nei
templi induisti affollati di apsara e gopi,
di fronte alla pienezza dei corpi ci si
chiede se quello che il cinema ci ha
combinato è averci fatto dimenticare
che la differenza tra le immagini in
movimento e il movimento scolpito è che
quest’ultimo ci consente un costante
rewind: possiamo sfiorare i rilievi e
bassorilievi con lo sguardo e con la mano,
con l’intero corpo che vi scivola intorno
e le avvolge in modo da “prendere”, qui
la presa è meno sfuggente che nel buio
di un cinema o nello streaming su uno
schermo domestico.
Qui per forza gli studi sulla luce di
Andrea Anastasio devono portarci su
un altro livello di lettura. Quello che vi
accade riprende la natura del moto, ne
utilizza gli accorgimenti, le liste che le
compongono sono frammenti, sono ciò
che apprendiamo quando i nostri occhi
esitano – come nel corridoio di un treno –
vanno avanti e indietro e apprendono
il paesaggio per scarti. I tagli di luce sono
gli stessi che ci vengono incontro quando
percorriamo un tunnel illuminato da neon,
quando attraversiamo un ponte affollato
di lampioni nella notte.
In questo caso c’è però una
dimensione che rimanda a una matrice
compositiva più radicale. Superfici
rotte, lame di luci, superfici ceramiche
bianche o blu, sagome che appaiono
e scompaiono. Viene da pensare alla
dimensione epica, orale, di questa
composizione. Ad essa si riferiscono
le sculture classiche alle più diverse
latitudini. Come dice l’exergo di Plutarco,
qui siamo nella fase della poesia, del
carro della poesia. Di una oralità che per
esprimersi ha bisogno dei canoni della
poesia, dei suoi trucchi, o meglio delle
sue risorse. Gli stacchi, le scansioni sono
quelle della voce del bardo, sono i suoni
che solo è possibile cogliere nel loro
flusso, nel loro accostarsi e fluire.
Vorrei anticipare l’ipotesi che
gli studi sulla luce di Anastasio mi
suggeriscono. Le luci, che stagliano,
frammentano, ricompongono le liste
affollate di profili stanno alla ceramica
come la dimensione orale sta alla materia
scolpita, sono le voci che danno vita
ai volumi. Le luci sono la dimensione
impalpabile del racconto, la voce del
bardo che accompagna le figure del
mito, che le “svolge” per le orecchie
degli astanti, un lavoro che richiede
una condivisione di metafore, figure
retoriche, temi, storie, favole.
L’ipotesi va accettata per quello che è.
Anastasio la prende e la rovescia,
la frammenta, l’epica per lui è già
balbuziente, è voce roca, profetica,
BATTITI
2
Marilyn Strathern, Learning to
see in Melanesia, Cambridge
University, 2013
3
Paul Zanker, Living with
Miths, The Imagery of Roman
Sarcophagy, Oxford University
Press, 2013