tempo stesso gravide di volume sembrano germinate da una spontanea energia: una
vegetazione d’arte depositata nel mondo per il tocco magico dell’occhio che l’ha gene-
rata. Prendiamo per esempio il disco cromatico del “Sole” (1987) con la gioiosa corolla
policroma in vetro di Murano,che diventa ancora una volta l’occasione per ritagliare
profili umani fin dentro le scaglie di una raggiera di luce: una conferma in più che il
mondo di Ceroli è antropomorfo e viceversa l’uomo vi si perde dentro,pure ritrovandosi
in ogni cosa.Da quel centro energetico di colore e di forma può nascere un tavolo,una
decorazione, o un altro qualsiasi oggetto: tutto si tiene nella fantasmagoria che l’artista
mette in scena mimando il segreto dell’universo. E ancora osserviamo la disposizione
delle sedie attorno al tavolo rotondo raffigurante una sintomatica Rosa dei Venti,con
quella loro forma di mappamondo rovesciato e dimezzato, appena circoscritto dal segno
flebile di una spallierina. Siamo nel pieno di una situazione conviviale: eppure netta è la
sensazione di non poggiare sulla terra ferma, come a bordo di un vascello fantasma che
naviga per orizzonti vaghi, con mappe e carte improbabili da decifrare. Le forme ideate
da Ceroli rovesciano la consuetudine dell’occhio, animano l’ambiente e ci ricordano che
la vita più intima è sempre parte di un tutto in movimento, di un cosmo che respira
eternamente al ritmo di un perfetto equilibrio. Si sa tra l’altro che quella forma semici-
lindrica riassunta nelle cèntine di legno viene direttamente dalla idea del Fonte battesi-
male pensato da Ceroli per la Chiesa di Tor Bella Monaca. E ancora una volta si riprodu-
ce lo scambio tra immagini e funzioni: da una parte il valore di arredo privato,dall’altra
la dimensione sacramentale,in cui la persona si riconosce nella comunità religiosa. E
ancora lo scherzo toccante dei putti incastonati sulla spalliera dei letti ha un effetto
vagamente spaesante per il rituale cui preludono con tono quasi liturgico. Mentre la
culla scavata nel legno ci conduce al tono di una memoria da foto ingiallita, tra madie
paesane e stipi senza coperchio,in cui si palesa il pregio del “fatto in casa”,come il pane
e l’olio. Questo passaggio dai toni aulici della tradizione artistica ad uno stile prosaico
di”cultura materiale” è un ingrediente della poetica di Ceroli che mescola sacro e
profano,cronaca,storia e vita quotidiana. Come il prezioso disco cromatico del”Sole” coi
suoi profili di ragazza che si ritrovano nella forza originaria dell’elemento cosmico e la
traducono in linguaggio domestico, consuetudinario.
L’esterno e l’interno, il pubblico e il privato, testimoniano col loro dialogo fitto il cuore
poetico dell’opera di Ceroli: una permanente ricerca di espressività totale capace di
riassumere il sensibile dentro le forme senza perdere neppure un grammo di vitalità.
L’artista che modella è continuamente impegnato in una gara illustre contro il tempo: in
ciò consiste anche il retaggio della lezione futurista presente nella sua opera. Linee di
forza, direzione delle forze statiche, profondità e ritmi cinetici attirano però la sua atten-
zione solo quanto basta per non cadere nella mimesi naturalistica del movimento. Si può
anche riconoscere per piccolo accenno più di una simpatia “boccioniana” negli avvita-
menti tortuosi del fusto ligneo di un di un lume-colonna avvitato in altezza. Ma l’opera
di Ceroli non si disperde nella eco di atmosfere dinamiche inerenti alla struttura degli
oggetti. Egli preferisce affermare la dimensione statica e monumentale che lo riporta
verso l’ arcaico e verso la tragedia implicita della visione. Se pensiamo al grande letto di
legno ribassato con la spalliera riecheggiante una malcelata Bocca della Verità, noi rive-
diamo per un attimo il volto della Grecia antica: con la maschera di un Sileno senza voce
al cospetto di un simbolico teatro, dove si celebrano nozze di eroi e mitiche fanciulle,
Achille e Briseide, Ulisse e Nausicaa. Anche quando fissa una sola immagine, grande è il
potere evocativo e narrativo che l’artista è capace di sprigionare. Per lui parlano i bugna-
ti, le tarsie bianco-verdi dei tavolini a spicchio, i cassettoni e le poltrone enunciate
dall’incrocio di elementi concavi e convessi, i cilindri tagliati a mezzo da lastre di cristal-
lo. Sono tutte figure che corredano la vita quotidiana e tuttavia rispondono ad un mira-
bile equilibrio che conferisce loro quasi una fissità sacrale. D’altra parte c’è una sola
parola che definisce lo stile inconfondibile di Ceroli: la proporzione. Egli la persegue
ovunque. E soprattutto quando sconfina nelle soluzioni apparentemente più dissimme-
triche: cosa c’è di più assialmente ordinato del suo Albero della Vita, con i riflessi studia-
ti del vetro che compensano la fuga serpentinata e obliqua dell’asta verso il cielo?
Incamminato sulla via poetica di lasciar parlare la materia, Ceroli tiene fermo al rispetto
della soluzione formale e dell’aura contemplativa che all’arte compete (altrimenti, non
sarebbe tale). Pure avendo condiviso le poetiche della neoavanguardia (nella fattispecie:
della “arte povera”) egli non si è mai fino in fondo riconosciuto in una estetica che
confida nella possibilità di andare “al di là della forma”. Una simile scelta, alla fine,non
può dare poesia. La immaginazione della materia può rivelarsi soltanto grazie al soffio
della invenzione artistica suggerita dalla mano e dalla mente. Con tutto si può fare arte
(legno,vetro, pietra, aria e acqua). Ed è sotto i nostri occhi quella scintillante prosa in
versi in cui Eugenio Montale ci ricorda di avere talvolta dipinto su “carta blu da zucche-
ro e canneté da imballo./Vino e caffè,tracce di dentifricio…/Composi anche con cenere
e con fondi/di cappuccino a Saint Adresse là dove/Jongkind trovò le sue gelide luci…”.
Già: le gelide luci del Nord Europa non sarebbero mai emerse alla perfezione se il pen-
nello di Jongkind non le avesse sottratte alle miserie della natura. E’ questa la sola e
indispensabile “ricchezza” dell’arte. Essa può nascere ovunque e con qualunque mezzo,
pur che risponda al requisito essenziale (Cesare Brandi lo chiamava “astanza”) di mani-
festarsi come forma sensibile plasmata dalla fantasia e dunque non appartenente all’or-
dine di questo mondo. Anche perché aderente per istinto e per cultura a questo princi-
pio, l’artista Ceroli sa come trasfigurare tutto ciò che gli capita di progettare: e
infatti,anche quando per le sue mani passa l’ordinario, possiamo stare certi che egli sarù
sempre in grado di suscitare una apoteosi della visione, riscaldandola col magico soffio
del meraviglioso.
Duccio Trombadori
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