MARCO LODOLA: L’AFFABILITÀ METAFISICA
Il lavoro di Marco Lodola ha il dono dell’affabilità.
Abbiamo detto affabilità, non facilità, che è una
cosa diversa. Vogliamo dire, in altre parole, che
le sue opere racchiudono una dimensione di
leggibilità, di piacevolezza (“piacere del testo”
avrebbero detto un tempo i semiologi) di cui
oggi si ha quasi paura, come se la dimensione
dell’attrezzatura immediata, in un’opera, fosse un
difetto e non un pregio. Osserviamole, dunque,
queste composizioni recenti qui esposte. Ci sono
figure in costume che danzano al suono di un
mandolino. C’è una coppia di danzatori che si
allacciano al ritmo di un tamburello. Ci sono liete
compagnie, che si muovono in sincronia, e hanno
l’aria di divertirsi tanto. Sembra di sentirne la voce,
il grido.
E poi c’è l’idillio di due innamorati. E una foto di
matrimonio, uno dei pochi soggetti statici (ma le
danze si apriranno fra poco…)
Dal punto di vista stilistico Lodola crea una serie di
figure prive di spigoli, arrotondate nel profilo come
accadeva in un certo simbolismo o nel Decò. Sono
figure intagliate in colori lucenti, resi ancora più
vividi dai materiali usati, che hanno la consistenza
e la liscia compattezza della madreperla. Sono
figure, inoltre, prive di particolari urtanti, di
anestetismi, di manchevolezze che attenuino la
ridente pienezza della loro sagoma.
Queste figure, come abbiamo detto, Lodola le
pensa prevalentemente in movimento: disposte in
coppie, in passi a due, in coreografie di gruppo. E
anche questo è un dato rassicurante e singolare. La
danza è una metafora di una condizione di armonia,
e infatti non c’è senso di solitudine, di desolazione
o di emarginazione nella famiglia colorata che
l’artista
pazientemente,
ostinatamente
ha
formato. Al contrario, si avverte fra le sue figure un
sentimento di affiatamento, di amicizia, di gioia
di stare insieme, se non di joie de vivre. Tanto che,
qualcuno dei suoi gruppi rotondi, dove danzatori
si tendono per mano, vengono in mente i versi
di Neri che dicono pressappoco “Un girotondo di
bambine / e tutte insieme son soltanto cinque/
una guarda l’altra che saluta / da un quadro del
Novecentocinque”.
Sono versi che si riferivano a un altro quadro,
naturalmente, ma si adattano bene anche a queste
composizioni levigate e luminose, pienamente
del nostro tempo eppure soffuse di un sottile
profumo d’antan. Un altro dono che ha la pittura,
o la scultura, di Lodola, è quello della forma chiusa,
definita, costruita con precisione.
È una lezione, questa, che gli proviene da lontano,
sia da radici d’inizio secolo, che da ascendenze pop.
Sta di fatto, però che oggi la nitidezza del disegno
(sia pure di un disegno abbreviato, che procede per
larghe sintesi e non si perde nei particolari) non è
un dato comune.
L’eredità dell’informale e del neo-espressionismo
hanno diffuso il gusto di una forma aperta, di
una pittura dal disegno indefinito, dalle linee
nervose e grondanti. L’opera di Lodola, invece,
offre il conforto di un rilievo ben stagliato, di zone
di colore nettamente divise le une dalle altre e
ordinatamente sigillate nei loro contorni. E anche
questo ordine, nella partizione dell’immagine,
contribuisce a quel “piacere del testo” che le sue
immagini possiedono. Del resto un grande scultore
del passato, Adolf Wildt, diceva “non è con la via del
vago e del pressappoco che si può giungere alla
spiritualità”. E anche se nelle opere di Lodola non è
in gioco lo spirito quanto lo sguardo, è vero che qui
siamo di fronte a cesure formali eleganti e perfette,
come in certi endecasillabi ben torniti. Come è
noto, l’opera di Lodola è stata battezzata ai suoi
esordi “Nuovo Futurismo”. La definizione, coniata
da Renato Barilli, era suggestiva ed esatta, per
quel riallacciarsi dell’artista, e dei suoi compagni di
strada, a un dinamismo anni venti, a un’idea ludica
dell’arte che trovava affinità nei precedenti alti e
nobili di un Depero o di un Balla.
Nel lavoro di Lodola, in particolare, il senso del
dinamismo (sia pure di un dinamismo disciplinato
nei ritmi della danza) è centrale. Il suo è un mondo
dinamico, una festa mobile di colori e di luci dove
non è prevista nessuna, o quasi. Le opere, a ben
vedere, portano con sé una dimensione musicale,
prevedono o sottointendono la presenza della
musica.
Detto questo, mi sembra anche le composizioni di
Lodola racchiudono un sé una sorta di dimensione
metafisica. Affabilmente metafisica, è il caso di
dire. Le sue figure sono, è vero, in gruppo e in
armonia, ma quel loro stagliarsi nello spazio vuoto
e bianco, quel loro vivere in un mondo privo di
ambientazione, come in un teatro magico senza
scenografia, infonde in esse un sottile senso di
straniamento.
Non siamo di fronte a nulla di tragico, di assurdo,
di “ferrarese”, si intende. Qui non è in gioco
la metafisica dechiriana. Piuttosto un nuovo
e
sorridente
realismo
magico,
un’atmosfera
lievemente onirica, come se questi danzatori
gioiosi e luminosi facessero parte di uno strano
sogno: un sogno che si materializza in una
colorata, frastagliata scacchiera. La stessa assenza
di lineamenti, nei volti di questi ignoti personaggi,
conferiscono loro qualcosa di sfuggente. E appunto
così ci appaiono le opere di Marco Lodola: sognate
e sfuggenti. Proprio come la felicità.
Elena Pontiggia
MIRABILI
Firenze 2008
188