NOTE DI LUCE
Se dovessi indicare la prima cosa positiva pensando
a Marco Lodola, direi che non si tratta di un artista
“nuovo”, o almeno totalmente nuovo. Non ritengo
affatto che il nuovo sia un valore positivo in arte.
Lo è sicuramente per il mercato, il vero, grande
dominatore dell’arte contemporanea, secondo
una legge del marketing moderno che è valida per
i dipinti come per le automobili: bisogna offrire
prodotti sempre rinnovati per stimolare le vendite,
promuoverli come tali, creare bisogni indotti negli
acquirenti. Quando i mercati e i loro fedeli alleati
(i critici, i collezionisti) hanno scoperto, intorno
alla metà del secolo scorso, che l’Avanguardia si
accorda perfettamente al principio della merce
nuova, l’arte è diventata moda.
Una metamorfosi che ha quasi capovolto il
senso stesso dell’arte così come era stato inteso
fino all’Ottocento, quando si creava non per fare
qualcosa di nuovo, ma di eterno.
da sinistra:
David Overi, Dario Nardella, Vittorio Sgarbi, Marco Lodola, Eike Schmidt
Assurdamente, il culto del nuovo artistico ha finito
per trasformare il passato quasi in un nemico da
combattere; solo di recente, quando ci si è accorti
che anche il passato poteva essere a vantaggio di
un nuovo sempre più richiesto, è tornato a essere
preso in considerazione. Ci troviamo così a guardare
tanta arte contemporanea degli anni precedenti.
Con Lodola, certi pericoli dovrebbero essere
scongiurati, proprio per il suo essere “non nuovo”.
Dietro le sue sagome di plexiglass, dietro le sue luci
al neon, dietro le sue campiture cromatiche, c’è
una precisa storia dell’arte che è stata conosciuta,
meditata criticamente, rielaborata: il Futurismo,
il colorismo ritmico di Delaunay, la Pop Art, per
dire solo di ciò che sembrerebbe più evidente. Un
certo modo di ridurre la figura a sagoma, contorno,
minimo denominatore grafico, era stato tipico del
modo con cui la pop art ha sviluppato gli spunti
provenienti dalla figurazione pubblicitaria (si pensi,
più ancora che a Warhol e a Lichtestein, ad Allen
Jones, Tom Wesselman, James Rosenquist).
Il neon aveva avuto Dan Flavin e il concettualismo
di Mario Merz, il suo impiego artistico più rilevante.
Ma in fondo, a ben vedere, anche Lodola possiede
una sua cifra non certo concettuale, ma almeno
minimalista, un minimalismo della figura che è
comunque esente dagli intellettualismi o dagli
slanci mistici di Flavin e compagni. In quanto al
colore, alla sua organizzazione in stesure distinte,
planari ed uniformi, vivacissime, il riferimento
immediato è al Futurismo non tanto dei maestri
fondatori, quanto di chi con il linguaggio dei
maestri è diventato il grande compositore nei
mobili, nei tessuti, in tutto ciò che poteva essere
decorazione: Fortunato Depero; un aggancio,
quello con Depero, capace di associare Lodola a
un altro artista contemporaneo, che ha avvertito
analoghi stimoli, Ugo Nespolo, anche se, in seguito,
con un percorso formale piuttosto diverso dal suo.
Lodola “non nuovo”, quindi, perché saggio rispetto
al passato, sul solco di esperienze storiche che,
seppure ancora attuali, sono già patrimonio
artistico, tradizione.
Ma va anche ammesso che il suo modo di essere
“non nuovo” possiede un’ originalità indubbia, al
punto da non poterlo definire né un neo-futurista,
come avrebbe voluto da giovane, né un “post-pop”,
né con qualunque altra definizione che lo identifichi
come un continuatore di qualcosa che era stata
inventata prima di lui. Lodola è soprattutto Lodola,
prima di ogni altra considerazione.
Così è stato sentito, così è stato subito apprezzato,
così il suo essere “non nuovo” è finito per diventare
una novità rispetto al nuovo non veo, il nuovo
per il nuovo che piace tanto ai mercati, a certi
critici e a loro soltanto. Non a caso gli esordi di
Lodola sono avvenuti sulla scia delle esperienze
come i Nuovi-nuovi di Renato Barilli, che così
nuovi in fondo non erano. Come in molta dell’arte
dei Nuovi-nuovi, Lodola ha recuperato il piacere
di un’arte che non stabilisce più differenze con
LODOLA AGLI UFFIZI
Arte e fede sono una cosa; ed è quindi inevitabile
che tocchi al primo museo d’Italia, gli Uffizi,
rappresentare, nel modo più luminoso, le festività
natalizie. Il tentativo del Vaticano, con le ceramiche
di Castelli in Piazza San Pietro, ha determinato
discussioni. La scelta del pirotecnico direttore
Eike Schmidt di chiamare l’artista della luce per
eccellenza, Marco Lodola, a comporre il suo presepe
nel Verone degli Uffizi perché domini e si rispecchi
nell’acqua del fiume, e sia visibile dal Lungarno e da
chi esca da Palazzo Pitti, è una intuizione moderna
e originale nel pensiero della tradizione e dei valori
cristiani. Nelle Natività di Rubens il bambino è
un bozzolo di luce. Qui la luce è l’idea stessa di
Dio. Sotto la stella cometa che tutti ci unisce nel
pensiero del Santo Natale.
Vittorio Sgarbi
l’applicazione (la maggior parte delle sue opere
sono potenziali oggetti d’arredamento), perché
l’arte – come pensavano Depero, Delaunay, Léger –
serve a decorare e reinventare il mondo dell’uomo,
a entrare concretamente nel suo quotidiano.
Lodola ha recuperato, o forse trovato per
proprio conto il piacere di un citazionismo quasi
involontario,
non
ostentato,
senza
nessun
interesse ad apparire colto e superbo, in questo
così diverso dal post-moderno alla Mendini al quale
pure potrebbe assomigliare. Lodola pensa solo
a far vedere, a illustrare, é quello il suo compito,
sia che collabori con gli scrittori o con le grandi
industrie, con i musicisti pop o con i pubblicitari. E
quello che ci fa vedere più di frequente sono i miti
dell’inconscio collettivo nell’era mass-mediatica,
la musica, il cinema, senza idealizzarli, ma anzi
trattandoli in modo divertito e divertente, basta che
il tutto si dia sempre come un gioco. Alla fine quello
che conta é il piacere dell’effetto, l’immediatezza
della comunicazione, il gusto di un’immagine,
di uno stile, di un oggetto subito riconoscibili
nelle
loro
componenti
fondamentali,
come
una sigla, un’icona, un “logo”, senza altre inutili
complicazioni. Sigle, icone, loghi che giungono
ad abitare nell’inconscio e a convivere con quegli
stessi miti dai quali provenivano, confondendosi
con essi in un continuo meccanismo di specchi
riflettenti. Galleggiare, stare in superficie senza
essere superficiali, ecco il grande azzardo dell’arte
di Lodola; perchè il piacere è qualcosa di rapido e
di evanescente, esiste solo se non si va a scavare
nelle nostre complicazioni, nelle nostre intricate
psicologie, nelle nostre eterne insoddisfazioni. È
questa anche la “popolarità” di Lodola, vocazione
anti-intellettualistica
a
rivolgersi
allo
stesso
pubblico a cui si rivolge il cinema, la televisione, la
pubblicità, la musica delle rockstar, ad adeguare
i tempi e i modi dell’arte a quelli della vita
contemporanea. Le opere di Lodola si potrebbero
vedere muovendosi in un’automobile lungo un
tratto urbano, fuori dai finestrini, oppure lungo il
percorso di una metropolitana: c’è da stare certi
che qualcosa di loro rimarrebbe certamente nei
nostri occhi e nella nostra mente. Di quanti altri
artisti si potrebbe dire altrettanto?
Vittorio Sgarbi
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