CONCERTO PER SUONI E IMMAGINI
La musica è sempre stata un gran mistero. Almeno
per l’arte. Non si sa come avvicinarla e, soprattutto,
non si sa come evidenziare i parallelismi tra colori
e suoni. La relazione, indubbiamente, c’è, come
già riconosceva Johann Wolfgang Goethe, ma il
problema è trovare un’espressione autonoma e,
nello stesso tempo, sufficientemente evocativa.
Si tratta di un dialogo stimolante, ma assai
sofferto, tanto che persino Arnold Schönberg
troncò con Wassily Kandinsky scrivendo: “È
stato un sogno, siamo uomini di due specie
diverse. Definitivamente!”. Il colore della musica,
voluto dalla Fondazione Maimeri, ha, dunque, il
merito di essersi imposto in questi anni come un
progetto innovativo, non privo di un certo grado
di provocazione. “Dov’è la musica?”, sussurrava
qualcuno degli spettatori intervenuto nelle edizioni
precedenti (con il 2001 si è giunti alla quinta),
come se dai dipinti potesse uscire direttamente la
colonna sonora. In realtà, tutti gli artisti che sono
stati sino a ora coinvolti, da Emilio Tadini a Aldo
Mondino, da Lucio Del Pezzo a Marco Nereo Rotelli,
si sono concentrati sulla musicalità cogliendo
l’armonia interna delle cose. Hanno espresso,
insomma, quel desiderio di andare oltre il visibile
che si nasconde nella dimensione più intima della
rappresentazione: assonanze, accordi tra forme e
colori che permettono di dare un nuovo significato
all’immagine. Nessuno, tuttavia, ha mai pensato
di fondere insieme arte e musica, ben consci che
sarebbero andati incontro a un insuccesso.
Proprio Mondino, ha raccontato di una sua
“stecca” quando, in gioventù, aveva tentato di
fare della musica pittura: “La mia idea era quella di
annunciare un ritorno all’ordine dopo l’abuso delle
avanguardie”, ha scritto proprio per l’edizione 1999
del Colore della Musica. “Avrei usato gli strumenti
musicali, selezionati e frammentati dai pittori
cubisti, per ricomporre una Frankestein-chitarra,
un mosaico concettuale rivelatosi presto un
fallimento. I più benevoli tra i critici parlarono di
ritorno al cubismo per mancanza di nuove idee.
Il caro e paterno Renato Guttuso, in piazza San
Marco, mi disse affettuosamente: ‘Siamo gli ultimi
cubisti’. Io avrei preferito l’acqua alta e scomparire
con tutto il Florian.” Il terreno della contaminazione,
insomma, è quanto mai insidioso e va affrontato
con prudenza.
A non correre rischi è Marco Lodola, un artista che
rinnova la segnaletica del nostro immaginario e
che ha sempre detestato il sistema tradizionale
dell’arte.
Le sue opere non evocano la musica ma sono nella
musica e questo elemento rende il suo approccio
diverso rispetto a quelli di qualunque altro.
Lui è un troubadour del XXI° sec che porta in giro le
sue ballate per strade e piazze, per vie e calli. Non a
caso ha curato l’immagine del Carnevale di Venezia
2001. Ha ragione Red Ronnie quando sostiene che
a Lodola il ruolo dell’artista va stretto e per questo
inventa immagini per le copertine dei cd, crea premi
per i musicisti e inventa scenografie teatrali come
l’ormai celebre cavallo a grandezza naturale che ha
fatto da fondale ai concerti dei Timoria e degli 883.
Nel 1998, poi, ha invaso Roma con le affiches della
Tosca e due anni dopo ha trasformato le strade di
Parlermo con i totem luminosi delle opere liriche.
Sono vere e proprie incursioni della cultura
cosidetta alta, snobbisticamente tenuta lontana
dalla fruizione della gente.
“Perché non si potrebbero fischiettare i motivi di
Verdi o di Rossini, come si fa con le canzonette?”,
si domanda Lodola. Ma non solo: ha avuto persino
la sfrontatezza di formare un gruppo musicale, i
BoneMachine. “Suoni e immagini”, afferma, “sono
due universi che si sovrappongono dando vita a
quel fenomeno per cui lo percezione di determinati
elementi è accompagnata da immagini proprie di
un’altra modalità sensoriale: sinestesie appunto.”
L’arte di Lodola e sempre in tournée, occupa
fisicamente lo “spazio, invade territori non suoi,
rompe le reti di proiezione e s’impone all’attenzione
di un pubblico vasto, uscendo finalmente dalla torre
d’avorio. Il suo sogno? Perfezionare quel curioso
strumento musicale creato dal compositore russo
Aleksandr Skrjabin noto con il nome di clavier
lumière. È una sorta di pianoforte che, accanto al
suono, prevedeva l’accensione di molte lampade
colorate sparse sul palcoscenico. L’invenzione
non ha trovato uno sbocco reale ma contiene in
sé le caratteristiche di quell’arte totale che tanto
coinvolge Lodola, un artista che partecipa alla
ritualità collettiva senza mai tirarsi indietro. In base
a questo principio, proprio nel 1998 ha fondato, nel
suo studio di Pavia, il Gruppo 98 che, magari, non
entrerà nei libri di storia dell’arte, ma va ricordato
almeno per lo slogan, l’unione trasversale degli
artisti.
Del resto, con questo spirito, sempre nel 1998 Omar
Pedrini, amico di Lodola, ha inventato Brescia Music
Art, una manifestazione che coinvolge musica,
pittura, scrittura, poesia, video e installazioni.
Tra Pavia e Brescia, insomma, si è tentato, senza
il peso delle ideologie, di far rivivere lo spirito delle
avanguardie e in particolare di Fluxus.
Tutti insieme appassionatamente, musicisti e
artisti, verso Lodolandia, il luogo dello fantasia
e della memoria dove si dipingono le note e si
suonano i colori. E non a caso Andy dei Bluvertigo,
Jovanotti, Max Pezzali, Timoria, insieme al direttore
d’orchestra Marco Lodola, si ritrovano a Milano in
questa mostra-happening ricca di suggestione.
Per Lodola la musica è lo stato naturale tanto che
le sue opere c’inseguono come un ritornello. Non ci
mette a disagio la sua arte, non ci crea frustrazioni
né angosce, ma ci fa compagnia e, forse, ci aiuta
a vivere meglio. Lodola, con le sue silhouettes,
vorrebbe davvero invadere il mondo uscendo dagli
spazi angusti delle gallerie. Ovunque andiamo, in
banca o al supermercato, al cinema o allo stadio, in
palestra o alla posta, ci sembra di ascoltare il suono
delle sue sculture luminose che si sono appiccicate
alla nostra memoria.
Paradossalmente, le opere si smaterializzano e
dietro a quelle rappresentazioni senza volto non
rimane che l’eco del suono. Una sensazione che
prende le mosse da una precisa scelta stilistica dal
momento che i suoi lavori sono una sintesi tra la
memoria infantile e i ritmi forsennati del rock.
È Lodola-Peter Pan a spruzzare la polvere magica
che riporta in vita le immagini invecchiate dal
tempo facendole danzare davanti ai nostri occhi.
In tempi non sospetti, nel 1993, quando, per la
prima volta, mi sono occupato di Lodola e le
sculture luminose erano di là da venire, mi ero reso
conto che le immagini bidimensionali ben presto
avrebbero subito una radicale trasformazione.
“Le opere di Lodola”, avevo scritto, “vivono di vita
propria indipendentemente dalla volontà del suo
creatore: attraverso un abile uso di pieni e di vuoti
le sue immagini senza volto ritagliate su fogli
di plastica rigida, sottilmente tridimensionali,
tendono a uscire fuori dalla composizione in cui
si sentono ingabbiate. Eppure, tutto è immobile:
le Figure sembrano attendere l’inizio della musica
o lo schioccare delle dita da parte dell’artista per
iniziare a danzare.”
Le figure ritagliate evocano il musical degli anni
Quaranta e Cinquanta. Ma il ricordo di Fred Astaire
e Ginger Rogers viene trasmesso attraverso i colori
artificiaIi e baluginanti delle luci al neon e delle
insegne pubblicitarie.
Non si pensi, tuttavia, a sofisticati congegni
tecnologici
o
a
effetti
speciali
di
stampa
hollywoodiana. Lodolondia è un’azienda artigiana
dove ogni pezzo di plastica viene tagliato a mano
dopo essere stato accuratamente disegnato su
carta. Anche le strutture luminose sono semplici
nella loro essenzialità, con fili, lampade e spine. ”Mi
raccomando, scrivi che sono un elettricista. lo ho
una visione proletaria dell’arte. Mi sento realizzato
solo quando manipolo i materiali e attacco i fili
elettrici che, come d’incanto, accendono le mie
sculture”, mi dice Lodola che lavora nella luce con
lo stesso spirito con cui Henri Matisse lavorava nel
colore.
Gioia e divertimento, magia e fantasia, cinema
e musica sono gli ingredienti che caratterizzano
il percorso creativo di Lodola. Ma non bisogna
dimenticare che, dietro alle ombre cinesi e alle
immagini senza volto, si celano l’artificio e
l’alienazione, il mistero e l’enigma. Per spegnere le
insegne del luna park e ascoltare il silenzio delle sue
opere è sufficiente staccare la spina. Fatto questo
gesto, le giostre si fermeranno e i saltimbanchi
usciranno di scena lasciandoci soli con i nostri
ricordi. Come in un film di Federico Fellini.
Alberto Fiz
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