Con che canzone? (Glielo chiederemo,
glielo chiederemo. Della forza attrattiva
dei Moroso non ci si libera facilmente…)
È qui che si rinforza “la linea che si
mantiene” di cui parlo e comincia la storia
nuova dell’azienda Moroso, il grado zero
di quello che oggi, nei suoi 60 anni,
è il marchio indiscusso di un vertice
inimitabile.
“Io sono dalla parte del design.
È la mia storia, con gli entusiasmi e le
sfide che derivano anche dall’entrare in
contatto con l’arte contemporanea.
Mi riferisco alle esperienze in Biennale
a Venezia, alle collaborazioni con il Palais
de Tokyo. Alla Illy. Ai proficui incontri
con artisti bravi come Michael Lin, Tobias
Rehberger, Francesco Simeti, Andrea
Sala. All’avventura meravigliosa del
Premio Moroso con Andrea Bruciati.
Ai rapporti sempre più frequenti con
le istituzioni museali. Bene, tutto ciò
continua a far parte di quella storia che
raccontavo all’inizio.
Mio padre, mia madre, giovani,
divertenti, cantavano e lavoravano.
E io sotto il tavolo. La storia mia e di mio
fratello si è un po’ autodeterminata.
Non siamo perfetti, ci sono anche sbagli,
ma abbiamo imparato quello che
possiamo fare. Roberto è la parte
pubblica dell’azienda in Italia, io vado in
giro per il mondo. Non abbiamo un’idea
unica. Più le cose sono diverse più ci
piacciono.”
“Ha bisogno di me? No, no, inizi dagli
altri. Domani non ci sono.”
Questa era la risposta di Agostino
nell’estate del 2007.
E questa è l’osservazione di Agostino
nell’estate del 2012.
“Tu e mia figlia sempre lì con questa storia
dei musei…”
Diana e Agostino escono, anche in
quest’estate più vecchia di cinque anni,
con una macchina grande dal cancello
sulla Pontebbana.
È mezzogiorno in punto. E vanno a casa
a mangiare.
Ormai mi conoscono, sono di casa.
Ormai mi hanno letto, si fidano di me.
Vorrei poter dire: “questa volta la
storia dei musei l’avete cominciata voi…”
“Ci vediamo a Casa Cavazzini”, rimane
nell’aria. Loro sono già sulla statale.
Guardo Patrizia.
C’è anche sua figlia Amina.
Sorridiamo.
La solita storia delle femmine,
che sentimentali.
“Erano anni duri, ma anche belli.
Ricordo me stesso come in uno specchio
immaginario della fantasia: un bambino
minuto con i calzoni corti e le calze di lana
che coprivano le gambe fin sotto il
ginocchio d’inverno; e a piedi scalzi e nudi
dai primi tepori di maggio fino alle brume
di settembre. Giocavo poco e mi davo da
fare per la mia famiglia. Il babbo preparava
nel forno di padrone Anselmo cento
schiacciatelle che la mamma disponeva
delicatamente in un cesto, ricoprendolo
con un tovagliolo fresco di bucato: io,
girando nelle sette osterie del paese
(ndr. Gualtieri), provvedevo alle vendite.”
(Dante Cavazzini)
Ed ecco ancora Patrizia: “Ero piccola
e giocavo sotto il tavolo. C’era sempre
la radio accesa, si parlava un sacco.
Insomma, questa origine un po’
‘speciale’, perché non c’era
l’imprenditore con le braghe bianche,
ma ragazzi… che magari avevano il mito
dell’America e di cambiare le cose…”
Questa storia della linea che si
mantiene ha anche un flusso di parole
che non va interrotto. Più la sento, più
permane in me l’idea che un volo come
quello di Agostino e Diana dentro l’inizio
del loro viaggio ha la genesi e la solidità
del mito. Agostino, “il re che disse no
all’America.” No, non è più possibile nel
2012. Non sarà più possibile nei prossimi
anni a noi vicini. Ma la questione del
common ground quella sì, la possiamo
fare nostra. Il teorema sentimentale del
“terreno comune”, tema della Biennale
veneziana di architettura che nasce
quest’anno alcuni giorni prima di questo
catalogo, (sono fuori tema? No, Moroso
ne è lo sponsor), porta a dire che il
segreto è anche saper lavorare in gruppo.
E nel mondo Moroso si lavora così: è
un’azienda che ha il cuore. La Moroso è
dunque un’azienda-famiglia, non una
famiglia-azienda, o non solo. “Viviamo
in gruppo e i risultati sono condivisi”,
mi ha sempre raccontato Alberto Gortani,
l’altra anima, quella manageriale,
quella degli stop. “Siamo un insieme,
puoi chiedere in giro.” Parola degli amici
collaboratori da sempre: Ferruccio
Montanari, Alessandro Paderni, Artemio
Croatto, Giulio Ridolfo. Marco Viola.
Fotografi, grafici, personalità adatte a
comunicare il mondo Moroso. Con
irruente immediatezza. Con disponibilità
immediata. “Patrizia ci chiama.” Per una
scrittrice come me che vive in solitaria, la
questione dell’ “insieme” suona esotica.
Ma in tempi di crisi forse è una
modernissima proposta di “linea che si
mantiene”. Che si deve mantenere.
Che si può apprezzare. Coltivare? La bolla
d’affetto dentro queste professionalità
piene di talento è davvero autentica.
Fortunati questi Moroso.
“Una delle cose che devi saper
riconoscere in questo mestiere è il
talento. Altrimenti perdi tempo. Non ho
mai chiesto a nessuno di disegnarmi
un pezzo,” continua Patrizia. “Ho sempre
chiesto di provare a immaginare un
mondo che è una cosa un po’ diversa.
E dietro c’è sempre una teoria, una
filosofia, un ambiente; in fondo c’è la vita
dell’artista che mette negli oggetti che
disegna anche la propria visione.
L’azienda è veramente una madre.
Figliolini che sono sempre diversi, perché
i padri, i designer, cambiano. Ma la
diversità non mi ha mai spaventato, anzi.”
E qui ci fermiamo e salutiamo il ricordo
di Patrizia, figlia di “Gusto” e Diana, con
l’emozione di chi ha vissuto con lei di
nuovo sotto il tavolo quegli anni gioiosi ed
è tornata bambina. Ci è sembrato persino
di sentire accendersi “quella” radio.
Common ground, storia di una linea che si mantiene.
Metamorphosis
062. 063.
Nonna e nipote:
Diana Mansutti Moroso
e Amina Gaye