facevano con passione e con
divertimento.
Mia madre, Diana, aveva 16 anni, mio
padre, Agostino, 20, erano stati entrambi
operai. Le loro famiglie erano povere.
Quella di mio padre poverissima, quella di
mia madre contadina, alias un povero che
mangiava. Mio nonno paterno faceva lo
stagionale in Germania. Mio papà era
l’ultimo di cinque figli ed essendo il più
piccolo e i tempi migliori rispetto ai primi
nati, gli era stata data la possibilità di
studiare. Almeno un po’. Aveva fatto una
specie di scuola d’arte e aveva talento per
il disegno e per la musica; studiava il
violino. Ma a 14 anni è andato a lavorare.
E il vero talento Agostino ce l’aveva nelle
mani, e che talento, e in pochi anni,
ne aveva soltanto 18, è diventato
capofabbrica di una piccola azienda
di divani. A Tricesimo: micropaese del
Dopoguerra a Nordest.”
Patrizia racconta spesso questa storia
che ha a che fare con il formarsi di quella
“linea” che poi ti modella il dna,
il carattere. Se la capisci fin dall’inizio poi
ti rimane. Non a caso in azienda entrambi
i figli di Agostino e Diana, Roberto
e Patrizia, ci lavorano insieme dagli anni
Ottanta e sono ancora lì nel 2012.
E si vedono pure a pranzo la domenica,
in stile molto friulano, a casa dei genitori,
quando non sono a New York, nella
Moroso USA. Loro due in America ci sono
andati.
“Mio padre ha conosciuto mia madre
in uno di questi posti. Si sono innamorati.
Tre quarti dei loro amici se ne stava
andando in America, chi in Canada, chi in
Argentina. Loro hanno deciso di rimanere.
E Agostino decide che se rimane qui deve
pensare con forza e orgoglio al suo futuro
e mettersi in proprio. E a chi chiede?
Alla sua piccola, devota fidanzata: Diana.
Ad amici e fratelli; tutti i fratelli di mia
madre e molti amici di mio padre.
Credo che all’inizio fossero una
decina, e mio nonno, muratore, appunto,
ha costruito per loro un piccolo
laboratorio, bellissimo tra l’altro, in fondo
al cortile. Ci potevano stare in venti,
e avevano attrezzato uno showroom al
pianoterra, come parte espositiva.
Sopra c’era il loft con colonne, finestroni
enormi e tanta luce. Io ricordo
quest’atmosfera gioiosa. ‘Il sabato si
accendeva il giradischi. Un po’ di paste
con la crema al marsala, e vino anche
andato in aceto.’ mi ha sempre confidato
mio zio Marino. ‘Poi si metteva a posto
per il lunedì.’ ”
Il mio pensiero a questo punto vola,
ancora una volta vola. In questo tipo
di storia viene facile. Mi viene in mente
il mecenate-filantropo Dante Cavazzini,
il Peggy Guggenheim di questa vicenda,
il commerciante di tessuti a cui si deve
se siamo a questo punto della vicenda
museale di Udine, -il nuovo inizio della
Galleria d’Arte Moderna-, con la mostra
Moroso in quello spazio dove la
incontrerete, con questo catalogo,
con me dentro il libro, con me di nuovo
davanti ai Moroso, in azienda, ahimè per
loro, a intervistarli di nuovo.
Dante Cavazzini, scomparso nel 1987, che
in testamento lasciò la volontà di donare
la sua casa-negozio a Udine in via
Savorgnana come museo alla città, scrisse
un’autobiografia per i suoi novant’anni.
E che biografia! Un amarcord di ironica
brillantezza che andrebbe ripubblicato.
Anche lui mitizza i suoi giovani anni in
Emilia (era nato nel 1922). Cavazzini, figlio
di un fornaio, anche lui non benestante,
(c’è una virtù somma nell’essere poveri:
quella di saper essere felici), parla infatti
con la stessa positività di Patrizia Moroso.
Common ground, storia di una linea che si mantiene.
Metamorphosis
058. 059.
Agostino Moroso,
foto di Mauro Paviotti, anni ‘90