Moroso 1952-2012.
Metamorphosis
056. 057.
Common ground, storia di una linea che si mantiene.
Metamorphosis
056. 057.
Sono entrata per la prima volta nel
2007, per Il Sole 24 Ore e per un
piacevole progetto editoriale voluto
dall’allora lungimirante presidente della
regione Riccardo Illy, tra le macchine
delle “sartine” dell’“atelier” Moroso, ho
bevuto il tè scivolato dal thermos insieme
agli operai allo scoccare della campana
delle 17. Sotto il ticchettio scrosciante
della pioggia nei capannoni, quell’estate
pioveva assai, mi hanno accolto tra i loro
silenzi, molto friulani, con il rispetto
dell’educazione ormai perduta verso chi
come me fa l’artigiano della scrittura.
Ho visto entrare designer, ho visto uscire
designer, ho nutrito sguardi speranzosi
perché scambiata come assistente-guru
nel potente mondo delle idee, ho vissuto
la nascita dei prodotti sguscianti dalla
mente fertile di Patrizia, ho avuto i piccoli
prototipi nel palmo della mia piccola
mano. Ho visto agire “di pancia”.
Ho conosciuto il mondo dei giovani che
hanno le idee. Ho sofferto dei loro rifiuti,
ho percepito le vibrazioni. Ho sentito
arrabbiarsi l’Urquiola. Ho sentito gioire
l’Urquiola. Ho sentito parlare molte lingue
insieme come se fossimo tutti fratelli.
Ho percepito le ombre del budget, gli
entusiasmi del contract. Ho aspettato
inutilmente Ron Arad. Ho visto Marino
accendersi di passione con in mano una
matita. Ho visto passare Diana
dall’amministrazione. Ho notato i
controlli, mentre ci raccontava dei nipoti.
Ho ascoltato Roberto mentre parlava del
padre con l’entusiasmo di chi ne
riconosce il valore. È l’apologia del
common ground, qual meraviglia.
“Ho un senso di protezione nei confronti
di mio padre; è lui che mi ha insegnato il
valore del bello e della cosa ben fatta.
L’idea di un designer è una meteora che
passa ed è fortissima. Mia sorella, curiosa
e competente, sa riconoscere quella
giusta. Gortani, ormai come un fratello,
ci dà la strategia corretta. I nostri genitori
ci hanno provato, ci sono riusciti, noi
portiamo il futuro. Ormai Moroso è un
modo di essere, non più un pezzo”.
Io ho visto Agostino, il padre fondatore,
più di qualche mattina sprimacciare
cuscini e rimandare indietro pezzi
minimamente imperfetti. Ho ascoltato
Diana, madre fondatrice, cinguettare
le virtù da ragazza e folgorarsi lo sguardo
di una bellezza pulita. Ho vissuto con
Alberto Gortani l’orgoglio del ricordo
della prima commessa del contract, la
nave Crown Princess. E anche oggi, dopo
più di 20 anni e 50 analoghe commesse,
nel mio racconto per il catalogo, c’è
un’altra storia di mare: la Royal Princess,
che dovrà essere pronta per marzo 2013.
130.000 tonnellate, maschia parola da
espertissimo direttore generale.
Nel 2007, in quell’estate, come in
questa, più vecchia di 5 anni, sono stata
trascinata dalla passione di tutti, con il
cuore attento e compresso sopra quella
catena girevole della produzione, da
sinistra a destra, che oltre alle idee
vincenti ha trascinato ancora una volta
anche me. “Mi fa malinconia tutto questo
silenzio”, mi dice l’art director al “giro”
della fabbrica chiusa per le ferie d’agosto.
Il segreto sta nel non cercare l’anima di
questo successo aziendale in uno su tutti
ma in tutti insieme, -imprenditori,
impiegati, operai; ora c’è anche il nuovo
direttore operativo Christian Tomadini-,
quell’anima friulanissima e internazionale
che adesso, nel 2012, racconta il mondo
Moroso come brand inimitabile di qualità
d’eccellenza nel design. Non rubabile
di certo. Non estraibile da quel grande
cuore compatto che vola lì dentro.
“Il mio ricordo era di un gruppo di
persone giovani, felici, che facevano una
cosa che a loro piaceva molto, che lo
Polaroid di Maurizio Galimberti,
7 aprile 1995