tradizionali del design: l’obiettivo
dell’equilibrio tra arte e tecnica, il valore
sociale dell’oggetto d’uso, la dialettica tra
autonomia ed eteronomia insita nella sua
progettazione formale”10. Si incrinavano
d’un tratto le certezze funzional-
razionaliste fino ad allora dominanti e si
innescava una nuova stagione di
sperimentazione nell’ambito del progetto
industriale.
Come ricordato da Vittorio Gregotti,
tra la fine degli anni Cinquanta e
il principio dei Sessanta sorse in Italia un
gruppo di aziende fondate su questo tipo
di collaborazione con architetti-
designers: la Kartell per le materie
plastiche, Fantoni e Castelli per i sistemi
d’ufficio, Artemide per l’illuminazione,
Cassina, Busnelli e Zanotta per gli arredi,
Pirelli per l’utilizzo della gommapiuma
negli imbottiti11.
In questo contesto la figura emergente
è senza dubbio quella di Ettore Sottsass
jr. che nel 1959 iniziò a collaborare con
Adriano Olivetti. Figlio di un architetto
razionalista, egli seppe andare oltre
quella che era stata la sua prima
formazione a contatto con il padre per
elaborare un pensiero che superasse
il funzionalismo ed attingesse ad una sfera
creativa più libera, tale da ricollegarsi
alle radici estetiche e ideali della
progettazione industriale. I suoi interessi
per la pittura americana contemporanea,
i contatti con la cultura indiana e
dell’estremo oriente e successivamente la
conoscenza personale dei poeti della Beat
Generation lo condussero a sviluppare un
concetto del disegno industriale che
puntando sulla riduzione stereometrica
della forma e sull’utilizzo espressivo
del colore nelle sue valenze simboliche
e rituali mettesse in luce le relazioni
istituite dagli oggetti con l’ambiente
umano e con il comportamento delle
persone12.
Tale atteggiamento, che confluì nel
movimento dell’architettura e del design
radicale di quegli anni, fu largamente
recepito a livello di progetto industriale
grazie alla carismatica personalità di
Sottsass, ma anche a seguito di alcuni
elementi innovativi provenienti da altri
ambiti creativi.
Da questo punto di vista, la Biennale
di Venezia del 1964 svolse un ruolo
fondamentale. L’esposizione di
quell’anno, infatti, registrò il successo in
Italia della Pop Art americana che
rappresentava fedelmente i valori di una
società consumistica e di massa,
suggestionata dalla pubblicità e riflessa
nelle strips dei fumetti in cui essa stessa
si rispecchiava. Non sarebbe possibile
comprendere i colori vivaci, le tecniche
formali dell’ingrandimento fuori scala e
il trionfo dell’oggetto “molle” nel disegno
industriale di quegli anni se non si tenesse
conto di questi scambi e di queste
interrelazioni ideali. Accanto ad essi si
ponevano, inoltre, gli influssi concettuali
e poveristi che andavano affermandosi nel
corso del decennio anche grazie
all’esperienza di gruppi di lavoro come
Archizoom, Superstudio e UFO o di singoli
designer di professione come Alessandro
Mendini, Ugo La Pietra, Gaetano Pesce
nonché di artisti prestati al design come
Piero Gilardi, attivo per l’azienda Gufram,
esponenti tutti della corrente del Radical
design13. Nel 1967 Germano Celant aveva
presentato, in una prima mostra collettiva
a Genova, gli artisti che lui stesso aveva
raccolto sotto l’etichetta dell’Arte
povera. Come evidenziato da Andrea
Branzi, l’iniziativa segnava “una rinascita
originale dell’arte italiana, interamente
basata sull’uso di materiali poveri,
naturali, fuori dall’idea di una modernità
invasiva e programmata; un’arte rivolta
alla ricerca di gesti semplici,
antropologici, forti della loro umanistica
Metamorphosis
“Dare corpo alle idee per creare un mondo”
022. 023.
Divani e poltrone, produzione
Moroso, anni ‘50
Poltrone, produzione Moroso,
anni ‘60