Possiedo da anni due profilati di plastica di Lodola
e non so mai come metterli – talvolta da dove
guardarli.
Mi ricordano i lavori di compensato che un mio
maestro elementare faceva col traforo e che,
minuziosamente dipinti ad olio, venivano dati agli
scolaretti, vuoi più bravi, vuoi più buoni, sicchè, alla
fine ce n’era uno per tutti, anche per il più deficiente
e per il più cattivo.
Rappresentavano pesciolini tropicali, nani, famose
regine di fiabe, casette con cagnolino, addirittura
alghe e coralli, un vero spettacolo per gli occhi, un
traguardo ambitissimo da tutti.
A differenza dei lavori di Lodola, quelli del mio
maestro, avendo tutti una base, stavano in piedi
e non bisognava appoggiarli da nessuna parte, la
necessità di dare a loro un equilibrio nello spazio
non ti inquietava più di tanto e non così a lungo;
sulla copertina di un quaderno, poi, ce ne potevano
stare una mezza dozzina.
Le ballerine a grandezza quasi naturale di Lodola,
una volta appoggiate a una parete, non si sa mai
da quale parte cadranno e ti abitui presto a non
affrontarle con una tua prospettiva in testa, poiché
esse ne hanno una propria, spesso impensabile,
davvero
capricciosa,
diciamo
pure
ostinata,
sfacciata, femminile: artistica.
Dopo pochi giorni, ecco che con un colpo d’occhio
COVER COVERI
Sfilata Coveri, Firenze 2007
prendono a reclamare di essere spostate da dove
le hai messe, dal salone passano alla cucina, dalla
cucina al bagno, tenti anche di impiccarle con
un chiodo, ma ce ne vorrebbero almeno tre per
calibrarle in una posa umanamente verosimile.
Pianti infine i tre chiodi ma, oplà, ecco che l’anca ne
divelle uno e la testa le va a finire sotto il tutù, la
lasci lì per punizione una settimana, sperando che
con tutta quella plastica alla testa assuma il suo
eterno nonché specializzatissimo passo di danza.
Ma un giorno rientri e vedi che si è tutta protesa
verso destra e vacilla sull’unico chiodo rimasto
attaccato, pronta a pretendere un altro trasloco,
allacciata a te, non disposta a separarsi da te,
vogliosa del più segreto teatrino del tuo vuoto in
movimento… Follie così.
E di questi tempi, qualcosa che sta in piedi da
solo non è roba da poco, anzi, è un fatto di per sé
luminoso. Ma certo, conviverci deve essere del tutto
diverso che girarci attorno, che fai, la lasci accesa
sempre, la accendi solo quando hai ospiti, le fai
fare le veci della plafoniera? E se si guasta, chiami il
restauratore, il fabbro, l’elettricista? Lodola stesso?
Corto circuito.
Aldo Busi
Ciao Lodola! Ho pensato a lungo alla domanda
che mi hai fatto l’altra sera: “Come racconteresti il
tuo rapporto con le mie opere? Per quale motivo
ti affascinano tanto? Cosa ti comunicano?”. Non
mi ero mai posto il problema. Come quando sento
una canzone che avrei voluto scrivere ma che,
sfortunatamente per me, ha scritto un altro: non
riesco a scomporla e analizzarla, semplicemente
mi siedo lì, la lascio andare in modo che mi scorra
addosso e che faccia vibrare l’aria intorno a me,
l’ascolto rimbalzare sulle pareti della casa o sulle
modanature in finta radica della macchina,
percepisco passivamente il suo fondersi con
l’ambiente circostante come se ne avesse fatto
parte da sempre. Forse è esattamente questo il
punto. Di fronte alle tue opere non mi sono mai
sentito in imbarazzo: mai viste come altro da me,
come l’Arte che dall’alto ti guarda e guai se non
la cogli in tutte le sue sfumature. Tale confidenza
percettiva non dipende da quella sorta di empatia
che si crea tra persone che si conoscono e che
frequentano lo stesso habitat, perché come sai,
pur essendo concittadini e quasi vicini di casa, ti ho
conosciuto prima come artista che come amico;
piuttosto a mettermi a mio agio credo sia stata
la capacità delle tue opere di non imporsi alle mie
emozioni, bensì di interagire con esse fornendo loro
una sorta di “colonna visiva”, esattamente come la
musica sa essere “colonna sonora” di stati d’animo
non necessariamente identici a quelli provati
dall’autore nel momento della composizione.
Ricordo ancora la sensazione che ho provato la
prima volta che ho visto le tue sculture luminose
installate su un mio palco: è inspiegabile come
quei giganteschi monoliti di luce e colore non
intimidissero i ragazzi, perlopiù adolescenti,
che occupavano le prime file del concerto. Essi
semplicemente ne rimanevano affascinati, si
lasciavano riempire gli occhi da quello spettacolo,
si lasciavano scivolare sulla pelle quelle forme
luminose come se avessero da sempre fatto parte
del loro immaginario emotivo. Mi rendo conto che
se un critico d’arte, un gallerista, un collezionista o
anche un semplice appassionato dovesse leggere
una cosa del genere probabilmente inorridirebbe;
quindi credo che non ti servirà a un granché come
prefazione di un catalogo. Però colgo l’occasione per
confermarti l’appuntamento delle otto al ristorante!!
Ci vediamo direttamente dentro. A più tardi.
Max Pezzali
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