Caro Lodola,
la figura serve a marcare una soglia, il solco
naturale
che
separa
l’apparizione
dell’arte
da
altre
apparizioni.
La
qualità
specifica,
la sua connotazione, risiede nel suo essere
esplicitamente
apparenza.
Un’apparenza
che
indossa continuamente diverse figure, particolari
travestimenti, che inducono lo sguardo a rimanere
sbarrato attraverso un lampo silenzioso.
La sua forza risiede nel suo presentarsi senza sforzo,
nello sfarzo di un abbigliamento che non denuncia
mai difficoltà semmai un naturale abbandono.
“L’arte è un aspetto di ricerca della grazia da parte
dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte
riesce; la sua rabbia e agonia, quando a volte
fallisce” (G. Bateson, Stile, grazia e informazione
nell’arte primitiva).
L’estasi prende innanzitutto l’artista, quello stato
particolare e necessario affinché egli possa portare
il travestimento dell’immagine nella condizione
della epifania.
Allora anche l’occhio esterno, quello contem-
platore, è attraverso da uno stato estatico che lo
mette nella possibilità di una nuova informazione
sul mondo.
La figura è portatrice dunque da una parte di
uno scompenso tra la propria immagine e quelle
esterne a essa, dall’altra produce successivamente,
dopo l’esibizione della propria differenza, uno
stato di integrazione attraverso l’estasi che
modifica la relazione dell’uomo con la realtà. L’arte
possiede una sua interna natura correttiva che
la porta a correggere il gesto prorompente della
sua apparizione iniziale e a stabilire un rapporto
socializzante nel momento della contemplazione,
in forme non retoriche.
La figura è il tramite di questa correzione di rotta,
il sintomo di una particolare inclinazione, quella di
operare tra bisogno della catastrofe e la “saggezza
sistemica”, tra la produzione di una rottura e la
spinta a destinarla al corpo sociale.
Esiste una inerzia iniziale contro cui l’arte si
arma, una “serenità” della comunicazione che
essa tende ad alterare mediante l’introduzione
di uno stato di “turbolenza”. La figura è lo
strumento di allargamento tra le sue strozzature,
tra le due polarità che ostruiscono il rapporto
di comunicazione, il mezzo iconografico che
conferma pace e bellezza.
La turbolenza è data dalla epifania dell’immagine
che rompe le aspettative e introduce, mediante
l’irruzione in un linguaggio piegato a esigenze di
particolare espressività, un elemento allarmante.
La figura dunque è il perturbante, ciò che determina
il segnale di un allarme che attraversa tutto il
linguaggio e l’immaginario sociale.
Nello stesso tempo il desiderio di profonda
relazione con il mondo prende il sopravvento
nell’arte, sostenuta da una saggezza sistemica che
tende a spingerla verso una correzione della rottura
iniziale, a riparare alla radicale solitaria violenza
PAVAROTTI
Fondazione Pavarotti, Verona 2010
dell’immaginario individuale.
La figura serve a produrre un cuneo, un varco,
tra la serenità della comunicazione sociale e la
turbolenza del gesto artistico, in maniera da
favorire un’apparizione che trovi ammirazione
e non incomprensione o paura. Il travestimento
che la figura assume può passare attraverso varie
maschere, che alcune volte incutono anche terrore.
Ma il fine è sempre quello di introdurre un’attesa,
una sospensione di difese del gusto, che permettano
poi la grande entrata nel mondo, sotto occhi attenti
e ammirati, pronti a cogliere la differenza.
L’arte non sopporta l’indifferenza, la distrazione di
uno sguardo che si pone in una condizione inerte.
Perciò la figura introduce sempre la bellezza che,
come dice Leon Battista Alberti, è una forma di
difesa. Difesa dall’inerzia del quotidiano e dalla
possibilità di scacco da parte di sguardi indifferenti
che non restano abbagliati alla sua apparizione
abbacinante.
La sorpresa, la proverbiale eccentrità dell’arte,
sono i movimenti tattici di una strategia rivolta a
consolidare la differenza dell’immagine artistica
dalle altre immagini.
“Io domando all’arte di farmi sfuggire dalla società
degli uomini per introdurmi in un’altra” (C.Levi
Strauss). Questo non è un desiderio di evasione, non
è un tentativo si sfuggire la realtà, bensì il tentativo
di introdursi in un altro spazio, di allargare un varco
che normalmente sembra precluso. L’arte corregge
la vista corta e introduce una guardata non più
frontale, ma lunga e differenziata, la guardata
curva. Così può aggirare l’invalicabile frontalità
delle cose e anche prenderle alle spalle. L’artista
dunque opera per aprire tali varchi, per spostare la
vista verso un incurvamento del significato anche
possibilità di affondo, oltre che di aggiramento.
L’arte è la pratica di questo movimento mediante
il deterrente di molte figure, che costituiscono
l’arsenale tattico cui l’artista esercita il suo rapporto
col mondo. Un rapporto certamente mosso da
pulsioni ambivalenti, da desideri che lo portano
verso uno stato d’animo, all’incrocio di oscillazioni
sentimentali ed emotive che ne costituiscono
l’identità e la probabilità esistenziale.
“Sei tu fra quelli che guardano o quelli che mettono
le mani in pasta?” (Nietzsche).
A questa domanda, tu Lodola, come rispondi?
Affettuosamente
A.B.O.
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