Per Cesare Villari la scuola finì presto. A quattordici
anni lavorava in una fabbrica di porcellana. Questo
non gli dispiaceva, al contrario era affascinato da
quel mondo. Curioso, voleva conoscere tutto, della
creazione e della produzione. Spesso chiedeva di
cambiare di posto per meglio comprendere, la
modellatura, la cottura, ogni tappa del processo.
Aveva una ventina d’anni, cioè già una bella
esperienza, quando arrivò nell’atelier una ragazza
di una quindicina d’anni, Silvia. Provava, anche
lei, una vera passione per questo mestiere. Questo,
forse, li avvicinò. Lei gli poneva molte domande. Si
capivano così bene che l’amore non fece molta fatica
a sbocciare e qualche anno più tardi si sposarono.
In due si sentirono forti. Chi ebbe per primo l’idea?
Chi spinse l’altro all’audacia? Un giorno decisero
di lasciare l’impresa per creare la loro. Villari
nacque un mattino dell’ottobre 1967. “All’inizio,
non fu facile”, riconosce Cesare, ma l’entusiasmo
sostenuto da una volontà indomabile permise loro
di vincere tutte le difficoltà. Agli inizi una decina,
sono oggi una cinquantina a lavorare per Villari.
Cesare è felice, lo riconosce, ha avuto “una bella
vita”: ha costruito una “bella” azienda e anche una
“Bella” famiglia, oggi ben associata all’avventura
dal momento che i suoi tre figli Alessandra,
Barbara e Leone lavorano con loro e pure un
genero Jean Sebastien. Il nome di Villari è presente
in tutte le capitali del mondo dai più improbabili
Paesi, l’Iran, la Cecenia, l’Azerbaijan, la Lituania,
il Dagestan… ai più tradizionali, il Giappone,
gli Stati Uniti, la Cina… e, fiore all’occhiello,
la marca brilla nel cuore del tempio ultimo del
grande gusto classico: da Harrod’s a Londra. Ogni
giorno Silvia e Cesare sono al lavoro, per inventare
nuove forme, per perfezionare una tecnica, per
aiutare questi artigiani a generare cose ancora più
belle. Agli altri membri della famiglia la gestione
e lo sviluppo. E’ facile questo lavoro in famiglia?
Cesare sorride: “non sempre semplice, siamo a
contatto tutto il giorno. Bisogna avere pazienza,
molta pazienza”, ripete come se gli tornasse
alla memoria qualche avvenimento recente.
Dall’esterno il luogo di produzione non è granché:
dei normali capannoni industriali. Bisogna entrare
nell’atelier, là dove batte il cuore dell’azienda,
per comprendere. Una sala molto grande. Luce
a profusione ancora più evidente perché tutto è
bianco, come ricoperto da una leggera polvere di
gesso che lo riflette. Un silenzio così assoluto come
quello probabile di uno scriptorium di un antico
monastero. Un accatastamento incredibile, come
l’antro di un alchimista dove campeggerebbe uno
strano serraglio, o come l’atelier di Babbo Natale
che, artista, avesse rinunciato a produrre i giochi
normali. Qui si modellano petali di rosa, ciascuno
diverso dal vicino, come nella natura, e che vengono
assemblati in fiori delicati. Là, un elefante che viene
dipinto con un verde, scuro molto brutto: “oh non
si preoccupi, è oro, ma il colore non compare che
dopo la cottura”. Là, in basso si applicano delle
decorazioni al pennello su delle coppe, più lontano
si vestono dei piccoli personaggi antichi. Delle
processioni di angeli, in file ordinate aspettano il
colore, dei cavalli impennati non perdono la posa,
pronti a ricevere il loro rivestimento di cristalli. Si
comincia a sognare. Si sogna. In fondo: i grandi
forni come altari supremi dove la terra si nobilita
e i colori si risvegliano. Il piano inferiore è più
tecnico. Le terre prima di tutto. “l’impasto viene
dalla Francia, dalla Germania, dalla Spagna… Lo
uniamo a ingredienti che doneranno alla porcellana
il colore delicato e la sua durezza”. Su queste ricette
segrete Cesare si fa discreto come un grande chef.
In seguito le tappe assomigliano al processo della
fusione del bronzo a cera persa: la modellatura,
le forme, il taglio in pezzi, l’impronta nel gesso,
la riproduzione in stampi di gomma, la posa del
materiale in uno strato sottile, la ricomposizione
del pezzo, l’inserimento di un punteruolo per
sostenere i pezzi più grandi durante la cottura,
i ritocchi prima della cottura, due o tre volte a
più di 1.200 gradi. Ogni tappa è un rischio. Ogni
“incidente” obbliga a ricominciare da capo. La
grande scultura di Michael Jackson di Jeff Koons
obbligò a scomporre in circa 100 pezzi diversi
in seguito rimontati insieme. Un lavoro delicato
“come per la costruzione di una casa, si assemblava
la base poi si doveva attendere che si asciugasse
per aggiungere i pezzi del livello superiore, poi si
aspettava… e così di seguito”, racconta Cesare.
Centinaia di ore di lavoro e di inquietudine e
poi questa immensa gioia, la vittoria ottenuta
e la conferma della virtuosità, della capacità
d’eccellenza. Lo stile Villari s’inscrive nella grande
tradizione di Capodimonte, la produzione voluta a
Napoli dal re Carlo di Borbone, nel XVIII secolo.
Coppe, centro-tavola, lampadari, porta-candele…
animati di angeli, animali, personaggi. Il tutto
spesso barocco, cioè animato di una vita, di un
soffio lucido affascinate. Allora, riservate ai palazzi
antichi queste follie decorative di un altro secolo?
Oh, certo che no. Guardate una stanza minimale,
tutta bianca, un tavolo e delle sedie di una
sobrietà che agghiaccia l’atmosfera. Aggiungete
al centro della tavola un volo di angioletti paffuti
in porcellana bianca e d’improvviso compare
una dolcezza di vivere, una gioia leggera. Qual è
l’utilità decorativa di un elefante d’oro? Ebbene
immaginate un decoro molto contemporaneo
riscaldato da una collezione etnica di terrecotte e
di sculture in legno d’Africa. L’elefante al cuore
di questo insieme esalterà subito il chiaroscuro di
terra e di ebano. Non si deve dimenticare mai che
la decorazione è un gioco. In questo gioco Villari è
maestro di fantasmagorie. C.J.
La fabbrica d’angeli
Mentre Silvia Villari apporta
un ultimo ritocco a un modello
classico, una dea di Canova si
meraviglia ancora del suo
drappeggio Swarovski.
While Silvia Villari makes a final
touch-up, a Canova’s goddes is
still amazed by her drapery full
of Swaroski.