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T’Journal 8
architetto ero un pittore e la mia
mentalità era del tutto diversa. Più che
l’invenzione di un corpo illuminante,
quindi, è il risultato della mia cultura
figurativa; Edison ha inventato la
lampadina, grandi designer come
Castiglioni o scarpa hanno invece creato
delle “forme illuminate”.
Com’è nata la collaborazione
con Tacchini?
U.R. Giusi Tacchini vide la lampada a
Bologna, durante una mostra d’arte
curata da Antonia Iannone. Proprio in
quell’occasione si parlò dell’ipotesi di
poterla rieditare.
Cosa vuol fare da grande, architetto?
U.R. Il mestiere dell’architetto me lo sono
fatto piacere. Il mondo della pittura mi
sarebbe stato più congeniale perché,
come ho detto prima, l’approccio sarebbe
stato privato e mi avrebbe totalmente
responsabilizzato. Se fai l’architetto o
il designer esistono degli aspetti che
condizionano molto l’esito finale: la
committenza, chi realizza il progetto, un
problema economico di solito piuttosto
rilevante, la responsabilità di capire
quale sarà il risultato finale, il risultato
finale stesso. Se dipingi un quadro o fai
una scultura, hai il controllo; quando
realizzi un’opera di architettura, che non
nasce da un processo formale privato ma
da richieste precise, no.
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CHI, DOVE, qUANDO
E (ALCUNI) PERCHé
DEL DESIGN ITALIANO
Matteo Pirola
Si parla spesso di Maestri del design,
di Milano come capitale italiana, e del
Moderno come principale movimento
storico nel novecento. queste tre
entità, questi tre ingredienti speciali,
sovrapponendosi e coincidendo
precisamente per un periodo abbastanza
lungo, in modo quasi alchemico,
hanno creato e sviluppato una
condizione magica e concreta in cui
il Design Italiano si è trasformato in
una materia molto preziosa, che si è
accumulata nel tempo in un giacimento
culturale che a lungo emanerà la sua
luce, come una splendente stella che,
anche se ormai lontana (qualcuno
dice spenta), continua a brillare e a
segnare la strada per le generazioni a
venire.
MAESTRO
Per Maestro definiamo in generale
la figura di un autore che ha saputo,
volente o no, fissare dei riferimenti,
tracciare una strada e produrre
delle domande universali (prima
ancora che dei responsi) alle quali
i cosiddetti allievi hanno provato
a dare delle risposte particolari.
Sono sicuramente Maestri i designer
della prima ora, quella generazione
che prende avvio con Gio Ponti, il
“padre del design italiano”, colui che ha
unito Ottocento e Novecento, e scritto
personalmente molti capitoli iniziatici
della nostra cultura del progetto.
Per mettere in ordine generazionale un
po’ di altri nomi illustri e illuminanti,
giusto per fare capire come oltre alla
qualità evidente ci sia stata anche
una altrettanta quantità indiscussa,
nominiamo: Franco Albini (Tacchini
riedita il tavolo MONZINO e la seduta
BIANCA) e Carlo Mollino, una coppia
di progettisti apparentemente agli
opposti che hanno tracciato i confini
di una nuova disciplina tra architettura
degli interni e disegno del prodotto,
tra artigianato e industria, mettendo in
scena i principi del Razionalismo da una
parte e del Surrealismo dall’altra, del
fascino della funzione e dell’efficacia
della forma (o viceversa); Bruno Munari,
un outsider d’eccezione che attraverso
l’arte, ma pensando al design, ha
fatto capire a tutti lo spirito di ricerca
necessario al di là della funzione,
sempre puntando all’importanza di
una idea insieme alla sua realizzazione
concreta. E poi i maestri designer, più
consolidati, ormai potremmo quasi dire
classici, pur nella loro modernità:
Ettore Sottsass, Achille Castiglioni
(Tacchini riedita la seduta BABELA
e la seduta SAN CARLO), Marco
Zanuso, Vico Magistretti, Angelo
Mangiarotti, e molti altri, compresi
per esempio quelli considerati
apparentemente minori, solo perché
la critica e la storia non se ne sono
ancora occupate seriamente: Gianfranco
Frattini (Tacchini riedita il tavolo GIO,
la seduta GIULIA, la seduta SESANN,
la seduta AGNESE), Ico Parisi, Gastone
Rinaldi, Gino Colombini. Maestri sono i
designer certo, ma lo sono stati anche gli
imprenditori, i “capitani di industria”,
coraggiosi e visionari nel trovare le
risorse da un lato e a controllare il
prodotto dall’altro lato di questo lungo
processo produttivo che solo guardando
verso il centro vede il progetto e i
designer come nucleo di un sistema
complesso. Capostipite dell’industria
illuminata è stato certamente Adriano
Olivetti, che ha saputo vedere per primo
nel design e nell’industria l’occasione
di una società migliore. Parlando poi
di arredamento, che è il più importante
ramo del design italiano, non possiamo
non citare nomi di imprenditori che
coincido con le aziende da loro stessi
condotte fino nei libri di storia: Cesare
Cassina, Dino Gavina, Aurelio Zanotta,
Piero Busnelli, e certo anche Antonio
Tacchini, che fonda l’omonima azienda
nel 1967 e che ospita ora queste parole.
Il fatto che le storiche aziende del design
italiano siano legate a un nome e ad una
famiglia che si è succeduta nel tempo
e che ha accolto via via vari maestri
del progetto come membri di questa
famiglia, è una delle più importanti
peculiarità del modo italiano di fare
design. questa generazione di persone,
imprenditori e progettisti, si sono
incontrati nel pieno della loro giovinezza
e voglia di fare, e insieme hanno deciso
di provare a disegnare e produrre un
mondo migliore.
MILANO
Per Milano individuiamo un punto,
vertice inferiore di quella grande area
territoriale e triangolare che ha gli altri
vertici in Como e Lecco, e che ha come
nome Brianza. In questo territorio,
da secoli, si sono succedute realtà
artigianali abilissime nelle costruzioni
(ricordiamo i millenari Maestri Comacini
e i sette giovani architetti comaschi
che hanno fondato il Razionalismo
Italiano nel 1926) e di tutti gli elementi
necessari ad arredare queste architetture.
Pensiamo alla grande quantità di ville,
aristocratiche o borghesi, che ancora
oggi si trovano a testimoniare come
questi dolci pendii e valli fossero
i luoghi privilegiati per le villeggiature
dei “signori” nei tempi passati.
In questa Brianza, nello scorso secolo
tante sono state le sedi di avvenimenti
speciali che hanno dato al design
motivo di orgoglio e solidità: a Cantù
le Selettive del Mobile dal 1955,
a Lissone le Settimane Lissonesi
dell’Arredamento dal 1936, e infine a
Monza, con la presenza della Villa Reale
che fin dal 1922 ha ospitato la prima
Università delle Arti Decorative e dal
1923 la Biennale delle Arti Decorative
e Moderne. questa attività di ricerca e
Rêveries
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Italian text
p.46
CHISSà POI COSA
SALTA FUORI
Intervista: Lucia Pescador
Lucia Pescador, ci parli di lei.
L.P. Mi chiamo Lucia Pescador, faccio
l’artista. Disegno da tutta la vita, lavoro
soprattutto su carta.
A che cosa si ispira per i suoi lavori?
L.P. Il mio tema base da almeno vent’anni
è l’inventario del Novecento con la mano
sinistra. Il Novecento è il mio secolo e
anche se per tutti è il secolo passato, per
me il secolo passato rimane l’Ottocento.
Lavoro sulla memoria della cultura e
sulla natura, due elementi che spesso si
intrecciano.
Nel suo lavoro è passata con molta
facilità dalla carta ad altri materiali.
Che differenza c’è tra questi ambiti?
L.P. Io amo molto l’arte applicata e faccio
parte di quegli artisti che amano lavorare
con le proprie mani. E quindi è chiaro
che tra il prodotto di cosiddetta arte
applicata e il prodotto artistico secondo
me i terreni si confondono.
E il design?
L.P. Io amo gli oggetti, tutti gli oggetti
mi affascinano. Amo gli oggetti di
sentimento, di affezione. Però il design
è ancora un’altra cosa e direi che questa
è forse la prima volta che me ne occupo.
Ci parla della versione d’arte
del paravento Nebula per Tacchini?
Com’è nato questo progetto?
L.P. Amo il paravento come oggetto, il
paravento classico intendo, perché amo
molto anche l’arte orientale. quando mi
è stato detto che avrei lavorato su un
paravento (che bello!) pensavo che mi
avrebbero chiesto di fare qualcosa di più
decorativo, invece mi hanno proposto
particolari di interni. Io ho disegnato
molti interni, perché amo l’architettura.
Amando l’architettura, amando il design
e i paraventi, tutto è venuto da sé. Per
me è qualcosa di totalmente nuovo, tanto
che mi sento un po’ più insicura.
Com’è stato lavorare con Tacchini?
L.P. Io amo molto lavorare con persone
con le quali sono in sintonia dal punto
di vista umano e con Tacchini mi sono
trovata subito in sintonia. Ho avuto un
po’ paura. Loro avevano già dei progetti
su questi paraventi e io gli ho detto:
“Ma non sono più belli questi dei miei
lavori?” e loro hanno detto “No, i suoi
lavori sono più particolari!”. Abbiamo
rischiato un po’ tutti, non si capisce mai
come vengono i biscotti quando li tiri
fuori dal forno!
qual è la differenza tra design e arte?
L.P. Si deve vedere quello che si fa da un
punto di vista un po’ meno personale,
forse, e un po’ più decorativo. Io lavoro
sulla cultura e quindi mi informo
tantissimo, non perché sia necessario
ma perché sono curiosa. Allo stesso
modo penso che molti designer siano
estremamente informati anche sull’arte,
anzi, ci sono designer che sono quasi
degli artisti, così come gli architetti. I
campi si sono molto mischiati. Ormai
siamo un’unica banda, credo.
quindi direbbe che la sua esperienza nel
mondo del design è stata positiva?
L.P. C’è chi ama provare e chi non ama
provare. Amando io gli oggetti, io amo
provare.
Che progetti ha per il futuro?
L.P. Io amo molto il cinema. E un po’ per
ridere dicevo sempre: “Da grande (amo
la pittura e la mia professione!) farò
anche la regista”. Farò fare delle riprese
dentro il mio studio di notte. E sarà un
percorso notturno in una videocamera.
Non so se questo è film o regia, o un
sogno mio. Chissà poi cosa salta fuori…
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UNA FORMA APERTA
Intervista: Umberto Riva
Architetto Riva, lei è stato allievo di
Carlo Scarpa e la sua carriera l’ha
portata verso i più diversi ambiti
disciplinari. Ci parla del suo lavoro?
U.R. Ho sempre avuto qualche problema
con il lavoro di architetto inteso
come punto di contatto inevitabile tra
artigiani, committenza e costi, che
percepisco come elementi coercitivi.
Invece, avrei sempre voluto fare l’artista,
il pittore, per trovare tutto il senso nel
mestiere stesso. Non è andata così.
Per questo i suoi progetti nascono
“disegnati”, come schizzi a matita?
U.R. Il disegno mi dà tutto. Anche
quando indago prima il tema, è
attraverso l’incognita del segno che trovo
risposte o scoperte o possibili scelte.
L’errore stesso è un nutrimento per
superare le strade già indagate, già usate
per trovare delle risposte.
Dove cerca l’ispirazione?
U.R. Direi che il paesaggio è la fonte
ispiratrice di tutto. Un paesaggio in cui
si è in armonia e dove non ci si sente
l’elemento avverso.
Cosa rende un oggetto desiderabile?
U.R. Una forma si legittima con l’uso
appropriato del materiale e attraverso
la cultura formale e visiva che uno si
porta addosso.
Ci racconti della lampada E63, che
Tacchini ha rimesso in produzione.
U.R. questa lampada mi piace molto
e non mi succede molto spesso: me la
sento amica. Forse perché si porta dietro
molta della mia storia professionale,
molto dell’approccio alla realizzazione
dei miei primi progetti. Nasce da un
concorso di Artemide, io avevo 35
anni. La lampada doveva essere fatta
a stampo in materia plastica, ma ha
una forma aperta e uno stampo deve
invece essere intero: farlo in plastica mi
sarebbe costato molta fatica perché non
conoscevo bene quel materiale, tant’è
che quando abbiamo deciso di riprodurre
il modello in plastica abbiamo usato
la fibroresina, che dà una bellissima
luce e ha una faccia esterna levigata,
ma all’interno lascia intravedere tutta
la tessitura del materiale. E visto che
i modelli mi era più facile realizzarli
in metallo, le prime lampade sono
state fatte in ottone. Penso che con il
metallo questa lampada abbia acquistato
asciuttezza di forme, esattezza di spigoli,
tensione: caratteristiche che si ottengono
con i materiali rigidi e che non avrei
mai ottenuto con la plastica. Nei primi
modelli si vede ancora la saldatura
tra le parti, un cordoncino di ottone che
fungeva da elemento di giunzione.
In seguito la saldatura è stata fatta a
laser, una tecnologia sofisticata che
permette un segno molto netto.
A cosa si è ispirato per disegnare
questa lampada?
U.R. All’origine la lampada si chiamava
Brancusi, perché prima di diventare