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by Marco Romanelli
Architetture
di vetro
Glass
Architecture
Sigfried Giedion, già nel 1948, nella sua fondamentale
opera Mechanization Takes Command, ipotizzava una duplice
origine per il design: il “mobile del tappezziere” si contrappo-
neva infatti al “mobile dell’ingegnere”. Non sarebbe impossi-
bile, muovendo da tale dato, riconoscere una genesi biunivoca,
e quindi un’identità sdoppiata, anche per il design italiano: da
un lato sta un progetto “mobile” che si concretizza in poltrone
e divani, sedie e complementi e che è nato in piccoli laboratori
artigianali (appunto “il mobile del tappezziere” e/o del fale-
gname), dall’altro troviamo un progetto “permanente” che dà
luogo ad armadi, porte, sistemi di partizione e che è nato diret-
tamente dall’architettura (“il mobile dell’ingegnere” o meglio
il cosiddetto “arredo fi sso”). Il primo ambito è stato maggior-
mente coperto dal punto di vista mediatico, ha dato luogo a
pezzi iconici, entrando nelle case di molti. Il secondo ambito è
invece rimasto a lungo vincolato dalla lentezza di sviluppo
delle pratiche costruttive (si pensi che il cantiere di un apparta-
mento contemporaneo differisce solo in minima parte da quel-
lo di un appartamento degli anni 30) e comunque ha riguarda-
to casi più rari, in cui il processo di ripensamento dell’interno
fosse integrale. Insomma, sintetizzando, il design “mobile” si
occupa di “accessoriare” lo spazio avendo come obbiettivo il
comfort, il design “permanente” si occupa invece di “costrui-
re” lo spazio avendo come obbiettivo la risposta alle articola-
zioni distributive e funzionali della pianta. Come dicevo, la
critica si è maggiormente occupata del design dei pezzi, men-
tre il design delle partizioni è stato trascurato o inserito tout
court nell’ambito dell’architettura degli interni.
In occasione del sessantesimo anniversario di Rimade-
sio, uno dei pochissimi marchi che abbia messo al centro del
suo operare proprio lo spazio e le sue delimitazioni, raggiun-
gendo tra l’altro una qualità assoluta, mi pare giusto ripercor-
rere rapidamente questa seconda strada, meno praticata.
Citare le partizioni dello spazio, in particolare le parti-
zioni mobili, evoca due diversi riferimenti: il primo, di natura
più concettuale, è il Giappone, il secondo, che ha anche preci-
si addentellati tecnici, si riferisce all’uso del vetro in interni.
Il Giappone riveste, per quanto riguarda l’architettura
degli interni, un ruolo imperituro. Si tratta infatti di un ineli-
minabile “luogo ideale”. La villa imperiale di Katsura è stata
il sogno segreto dei protagonisti del Movimento Moderno e,
molti anni dopo, uno dei modelli indiscussi del minimalismo
architettonico: simbolo di una alternativa, raramente agita, al
“pieno” che il costume occidentale impone in interni. Fin da
quando Bruno Taut visitò per la prima volta la villa, nel 1933,
il “vuoto” come destino, il rapporto (con lo scivolare silenzio-
so degli shöji e dei fusuma) tra interno ed esterno, cioè tra vita
e natura, e tra diversi ambienti (a dilatare prospettive e possi-
bilità) sono diventati per gli architetti europei un paradigma.
La possibilità di trasparenza ne è la chiave. La capacità di far
interagire luce e ombra ne costituisce il segreto. La geometria
ne è il grimaldello attuativo: i tatami modulari, orlati di scuro,
i profi li delle immense ante scorrevoli, le grate di bambù. In
sintesi uno spazio campito da astratte linee orizzontali e verti-
cali, contemporaneamente utili a dilatare e a misurare.
L’Occidente più sofi sticato riprenderà questi valori, de-
clinandoli non nell’estetica del legno e della carta di riso, ma
in quella del vetro e del metallo. D’altronde, già nel 1914, Paul
Scheerbart aveva scritto nel suo Glasarchitektur: “La superfi -
cie della terra cambierebbe moltissimo se l’architettura in
mattoni venisse eliminata e ovunque sorgesse al suo posto
l’architettura di vetro. Sarebbe come se la terra si ricoprisse di
gioie preziose di smalto e di brillanti… Avremmo un paradiso
sulla terra, e non sentiremmo più il bisogno di guardare con
nostalgia al paradiso nel cielo”. La Casa del Fascio, progettata
da Giuseppe Terragni a Como nel 1932, era immaginata pro-
prio come un’architettura di vetro. La possibilità di trasparenza
aveva assunto a Como un preciso valore simbolico: il passag-
gio dal peso murario del passato a una costruzione di luce
rappresentava il futuro. Così non fu, come ben sappiamo (e la
disillusione contribuì a uccidere il progettista di quell’opera),
ma l’utopia di un’architettura di vetro sopravvisse, celandosi,
almeno in un primo tempo, negli interni. Franco Albini, con
le sue emblematiche prove alle Triennali, nel 1933 per la “casa
Sigfried Giedion, as early as 1948, in his groundbreak-
ing book Mechanization Takes Command, speculated on a
dual origin of design: the “furniture of the upholsterer” com-
pared sure enough to the “furniture of the engineer”. It would
not be impossible, moving from the given speculation to rec-
ognise a biunique genesis and therefore a split identity, also
for Italian design: on one side there is a furniture project that
materializes in armchairs and sofas, chairs and accessories
from small artisan workshops and studios (exactly that furni-
ture of the upholsterer and/or the carpenter), on the other hand
we fi nd a “permanent” project that gives rise to wardrobes,
doors, partition systems and which comes directly from archi-
tecture (“the furniture of the engineer or rather the so-called
“fi xed furniture”). The fi rst area was given more coverage,
from a media point of view, giving rise to iconic pieces, which
then entered to be part of many people’s homes. The second
area, instead remained for a long time bound to the slow pace
of the development of building practices (if you think that the
building works of a modern apartment differs only slightly
from that of an apartment of the 30’s.) and however has in-
volved the rarest cases in which the interior design reconsid-
eration process was integral. In short, synthesizing, “mobile”
design deals with accessorizing the space aimed at enhancing
comfort, permanent design deals instead with “building” the
space having as its objective the answer to the distributive and
functional hinges of the drawing. As I said, the critics dealt
mainly with the design of the single pieces, while partition de-
sign has been overlooked or simply inserted into the Interior
design area.
On the occasion of Rimadesio’s sixtieth anniversary,
one of the few brands that has put at the centre of its work
the space and its delimitations, reaching, what’s more, uncon-
ditional quality, I think it’s right to quickly retrace the second
and less practiced option.
When mentioning space partitions, and in particular
mobile partitioning, two different reference points come to
mind: the fi rst is Japan and its more conceptual nature, the
second, which also has precise, technical denticulation, refers
to the use of glass in interiors.
Japan, as far as interior design is concerned, has an un-
fading role. It is in fact an insupressible “ideal place”. The
Katsura Imperial Villa was the secret dream of the protago-
nists of the Modern Movement, and, many years later, one of
the undesputed models of architectural minimalism: symbol
of a rarely implemented alternative to the “presence” that
western traditions and customs require in interiors. Since the
time when Bruno Taut visited the villa for the fi rst time in
1933, “emptiness” was the destiny, the correlation (with the
silent glide of shöji and fusuma) between internal and exter-
nal, that’s to say between life and nature and between dif-
ferent spaces and settings (to expand perspectives and pos-
sibilities) has become a model for european architects. The
possibility of transparency is key. The ability to interact with
light and shade is the secret. Geometry is the skeleton key
for implementation: modular tatami, dark rims, the profi les
of the immense sliding doors, the bamboo grates. In short a
space marked by abstract horizontal and vertical lines, useful
to both expand and at the same time to measure.
The more sophisticated West will pick up these values,
declining them not in the aesthetics of wood and rice paper,
but in that of glass and metal. After all, as early as 1914 Paul
Scheerbart wrote in his Glasarchitektur: “The earth’s sur-
face would really change if brick architecture were eliminat-
ed and glass architecture would arise everywhere in its place.
It would be as if the earth was covered with jewellery, all
sheen and diamonds… We would have a heaven on earth, and
we would no longer feel the need to look longingly to heaven
in the sky.” La Casa del Fascio, designed by Giuseppe Terrag-
ni in Como in 1932, was conceived just like glass architec-
ture. The possibility of transparency had taken on a precise
symbolic value in Como: the transition from heavy walls and
buildings of the past to constructions full of light represented
the future. But it was not to be, as we well know (and the dis-
illusionment contributed to the death of that work’s designer)