Dettaglio costruttivo di modello, Michele De Lucchi /
LUOGO: Il Chioso, atelier privato
Model construction detail, Michele De Lucchi /
PLACE: Il Chioso, private atelier
Medoc /
Filo di Lama, Erice 1312 /
DESIGN: Michele De Lucchi + Philippe Nigro
Medoc — Michele De Lucchi + Philippe Nigro
Quella mattina Michele De Lucchi si risvegliò come sempre
molto presto, ma qualcosa di diverso - un pensiero, un dubbio,
un ricordo - disturbava la routine che aveva scelto per essere
quel che voleva essere: il treno da Angera, lo studio in centro
a Milano, i viaggi, gli appuntamenti, l’agenda che era diventata
la sua seconda compagna (da quel lontano 1982 quando l’aveva
messa in una mostra e libro come progetto, un po’ per scherzo
un po’ sul serio); i disegni a mano, la navigazione tra architettura
e design, e poi ancora il treno la sera, quasi ogni sera.
Quella mattina invece mentre si faceva il caffè e aspettava
fissandola che dalla macchina - che aveva disegnato per Alessi
e che gli piaceva continuare a provare per magari scoprire
qualcosa da migliorare - uscissero i primi sbuffi di vapore
a dirgli ok, ci siamo, non gli riusciva di pensare altro che
a quel vapore.
Finché non gli sembrò di sentire una leggera improvvisa
variazione della luce nella cucina. Non ci fece troppo caso,
prese una tazza di caffè, tornò in camera e si mise a preparare
la valigia piccola, tanto il viaggio non era lungo: mise dentro
due o tre foto dei suoi che gli piaceva guardare ogni tanto,
si avviò alla porta, alla strada, all’auto che lo aspettava per andare
in aeroporto…
L’albergo non gli sembrò peggiore o migliore dei soliti, ma c’era
di buono che la stanza fosse quasi una suite, dove poteva pensare
di rilassarsi dopo la giornata che era comunque stata lunga, tra il
viaggio, le riunioni, il pranzo e la cena. Aprì dunque la porta della
stanza/suite: stranamente, la luce nell’ingresso - una sua Tolomeo
parete, per combinazione - era accesa e dal living veniva la voce
sabbiosa di Bob Dylan:
“...Oh, Mama, can this really be the end
To be stuck inside of Mobile
With the Memphis blues again...”
Natural Genius
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Parole che adesso non gli sembravano dire molto ma per forza
gli ricordarono una sera d’inverno di moltissimi anni prima -
a casa di amici a Milano, sarà stato il 1980 - in cui quella
canzone continuava a suonare da un giradischi.
Nel living della stanza al Belfort Hotel non c’erano giradischi,
ma solo una specie di iPad collegato forse a Spotify o cose così,
eppure la musica era proprio la stessa.
Né i giradischi né gli iPad però si accendono da soli, era entrato
con una chiave normale, niente chip e automatismi: di aver
lasciato la luce accesa Michele proprio non si ricordava.
Fece dunque qualche altro passo nel corridoio e si affacciò
nel living.
Sul divano c’erano due lunghe e magre gambe accavallate, infilate
in un paio di pantaloni di tela kaki, molto eleganti e solo un po’
sformati - attaccati alle gambe un paio di mocassini, del genere
da barca, portati senza calze: più sopra una camicia di lino bianca,
e ancora più sopra, una bella testa di capelli grigi lunghi legati
in un codino. Non poteva essere, ma invece era: era Ettore,
Ettore Sottsass jr.
La bella testa di Sottsass si girò, gli sorrise e parlò con la sua
voce più amichevole e quel leggero accento torinese che solo
chi lo conosceva bene e gli voleva bene poteva sentire:
“Come stai, Michele?”
Per rispondergli Michele cercò con la mano una poltroncina
più vicina possibile da accostare al divano, la tirò a sé mentre
lo guardava e si sedette, non tanto piano che gli occhi gli si erano
annebbiati per un attimo. Non poteva essere, ma era proprio
Ettore: che adesso lo guardava con gli occhi azzurri che aveva visto
tante volte - in tanti anni di studio insieme, poi all’Olivetti e ai bei
tempi di Memphis - cambiare espressione: senza mai lasciare una
specie di malinconia che portava con sé, per cose che Michele
A DESIGN STORY - Michele De Lucchi