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Il Grand Hotel: il mito della
villeggiatura come esperienza
di benessere e di svago
Giuseppe Pacciarotti
Storico dell’arte e autore di “Grand Hotel. Luoghi e miti della villeggiatura in Italia 1890-1940”
Art historian and author of “Grand Hotel. Italian holiday destinations and legends, 1890-1940”
All’élite cosmopolita intenzionata a fare villeggiatura
in Italia nei mesi tiepidi dell’inverno e della primavera
(mai in estate, causa “l’ardeur du soleil”) l’Orario
Ufficiale delle Strade Ferrate del Regno d’Italia
indicava nel 1906 - annata buona per via dell’apertura
della galleria del Sempione e per l’Esposizione
Universale di Milano - due giorni di viaggio da Londra
o da San Pietroburgo, però su treni comodissimi e
di autentico lusso, “composti di soli Sleepings-Cars
e carrozza ristorante”. L’insostituibile guida rossa del
Baedeker orientava poi su cosa vedere, quali località
scegliere e sui Grand Hôtel dove scendere. Ormai
anche in Italia essi competevano per qualità e chic
con quelli, considerati di riferimento, della Svizzera e
della Francia e si imponevano maestosi con facciate
abbellite da stucchi e affreschi, cupole e mansarde
fra le sommesse case dei caratteristici borghi scelti
per la vacanza.
Tutto era sempre pronto al Grand Hôtel per ricevere
ospiti così di riguardo: cortesia, educazione ed
efficienza erano impeccabili al pari del comfort
moderno apprezzabile anche nelle camere prive
sì del bagno, ma aerate, spaziose, ben arredate e
dotate di illuminazione elettrica e di riscaldamento.
Un comfort che dava garanzie agli habitués degli
alberghi “de tout premier ordre” dove grande
attenzione era prestata ai luoghi in cui ci si poteva
vedere e, soprattutto, farsi vedere, dunque la hall
sfavillante di specchi e cristalli, i salotti riservati alla
conversazione, alla lettura e alle feste, il fumoir, la
veranda per un tè davanti al panorama e la sala da
pranzo dove per gli ospiti era d’obbligo entrare in
abito lungo, in frac o in smoking mentre i camerieri
servivano in livrea. Altro spazio distintivo era il
giardino, talvolta un parco immenso, dotato di lawn
tennis o del golf links e digradante verso la riva del
lago o del mare, allora le mete più ricercate.
In questi ambienti dove tutto doveva far dimenticare
assilli e malanni, gli ospiti trascorrevano il tempo lento
della vacanza, lunga anche mesi, tra conversazioni
brillanti e passeggi eleganti (e magari anche galanti)
sui lungomari o in vista di paesaggi stupendi, appena
un sussurro se si vedeva passare la Duse, Lina
Cavalieri o la marchesa Casati, le “femmes fatales”
di allora. Giusto dare un’occhiata alle bellezze d’arte
e della natura di cui l’Italia era disseminata, ma non
era l’ospite dei Grand Hôtel quello più interessato alla
cultura e alle vicende politiche e sociali. Piuttosto
era tutto un darsi appuntamento per l’afternoon tea
concert o per la cena dai menu squisiti, per le feste
da ballo allestite sotto lampadari di Murano dai mille
pendagli, le dames grondanti di perle e in abiti di
Poiret e di Worth che modellavano in sinuosità liberty
le loro silhouettes, i signori in frac completo e guanti
color lavanda.
Erano gli anni di quella che fu chiamata la Belle
Époque, bella solo per lord e ladies e per i nuovi
industriali dai larghissimi mezzi economici; una
stagione destinata a durare non per molto e infatti la
guerra, la prima Grande Guerra, spense da un giorno
all’altro le luci nei saloni dove le coppie eleganti erano
avvinte nella spirale degli ultimi valzer e le camere
con vista divennero ricovero per i feriti provenienti
dalle trincee e dai campi di battaglia.
Sembrava inesorabilmente finita la stagione dei
Grand Hôtel e invece, appena qualche anno dopo,
tornò fiorente. Certo, senza più la calma oziosa di
prima, anche se restavano, riprendendo Baudelaire, il
lusso e la voluttà, anzi loro più esibiti. Si era ormai nei
tumultuosi Anni Venti e al Grand Hôtel, tradotto più
tardi in “Grande Albergo” per ossequio alle direttive
del regime, non si arrivava dopo estenuanti viaggi
in treno, ma in automobile e, dalle Americhe, sugli
enormi transatlantici dalle ciminiere fumanti, se non
già in aeroplano. Le signore avevano definitivamente
abbandonato strascichi e piume di struzzo e i signori
il frac; la moda lanciava abiti corti, dalle scollature
profonde e scarpe dal tacco alto e robusto, adatto al
fox-trot e al charleston, balli che furoreggiavano non
più nei saloni con divani di velluto e alte palme nei vasi,
ma al kursaal o al dancing, ambienti tempestivamente
allestiti e sbandierati nelle pubblicità, o, se si era al
mare, sulla rotonda all’aperto, dato che la stagione